domenica 5 giugno 2022

Gianmario Bonino - La felicità è un balcone

Gianmario Bonino - La felicità è un balcone (Le cose belle della vita)
Pubblicato sul sito www.lulu.com dove si può acquistare e scaricare online la versione ebook. Il testo cartaceo è acquistabile su www.amazon.it (cliccando sull'immagine a destra) oppure può essere ordinato nelle normali librerie.

Le cose belle della vita sono quei momenti che non hanno nulla di eccezionale, anzi fanno parte della nostra quotidianità, ma ci regalano quella misteriosa felicità che rende il tempo che passa meritevole di essere vissuto.


La felicità è un balcone
Se dovessi riassumere la mia infanzia con un'immagine, non potrei che pensare al balcone della casa dove sono nato.
   Questo balcone si affacciava proprio sopra il portone d'ingresso, al n° 19 della Via Beato Oddino Barotti, nel centro storico di Fossano, una bella cittadina in provincia di Cuneo.
   Dal portone si entrava in un androne con il soffitto ad arco che immetteva nel cortile quadrato sul quale si affacciavano balconate a ringhiera.
   Quell'antica casa era stata acquistata da mio padre dopo che il nonno gli aveva consegnato tutti i suoi risparmi per sfuggire a un’oscura storia di imbrogli di cui era rimasto vittima. La casa era disposta su due piani e ospitava diversi inquilini. Si diceva risalisse al settecento e fosse stata sede di un convento e poi un'abitazione nobiliare.
   Salendo le scale, dopo la prima rampa, si notava una nicchia con esposta la statua della Madonna.
   Tutto il primo piano era ordinato secondo un susseguirsi di grandi sale. Naturalmente era stato  suddiviso in due appartamenti e il nostro era composto da sei stanze che mi apparivano come un affascinante percorso.  L'unico timore era attraversarle nell'oscurità, rischiando di inciampare in qualche suppellettile, poiché gli interruttori della luce erano posti ad altezze per me irraggiungibili.
   Nelle due sale più grandi vi erano enormi camini e soffitti affrescati.
   Amavo questa casa, che rappresentava una continua scoperta tra bauli, armadi, cassetti e che potevo percorrere anche in sella al triciclo, tanto era grande.
   Il balcone, quel balcone, si raggiungeva dalla cucina che pur essendo una delle stanze più piccole, era anche il luogo maggiormente frequentato. Forse perché era riscaldata da una potente stufa, comunemente chiamata potagè.
   Non frequentando l’asilo (a quei tempi era roba da ricchi) avevo tutto il tempo a mia disposizione e quel balcone diventò per me come una finestra sul mondo.

   Ogni mattina, appena sveglio, mi recavo in cucina per la colazione e trovavo la mamma intenta ai fornelli. La radio era sempre accesa e trasmetteva canzoni con le voci di Carla Boni, Gino Latilla e altri artisti di quel tempo.
   Durante la bella stagione la porta-finestra della cucina era sempre aperta sul balcone. Io mi precipitavo subito fuori e facevo colazione su di un piccolo tavolino. Il sole del mattino mi riscaldava con i suoi raggi e si rifletteva sui vasi di geranio.
   Mi sentivo al sicuro, sul mio balcone e allo stesso tempo partecipe di quel mondo che potevo osservare da una postazione così privilegiata.
   Di fronte vi era un altro balcone. In quella casa abitava una famiglia numerosa e per la verità piuttosto rumorosa. I bambini, più grandi di me, gridavano a squarciagola e la madre li rimproverava strillando lei pure. Ogni tanto appariva anche la figlia più grande, una graziosa ragazza con i capelli corti e neri. Si chiamava Maria.
   Al piano terra, sempre di fronte a me, vi era il magazzino di Elio, che di mestiere faceva il venditore ambulante. A quell’ora era già partito da un pezzo con la sua Lancia e sarebbe tornato solo nel primo pomeriggio. Mi salutava ogni volta che mi vedeva sul balcone e alle volte faceva qualche commento in dialetto che non sempre capivo.
   Poco lontano, sulla mia sinistra, erano già al lavoro i meccanici dell’officina. Riparavano le auto e le lavavano con l’acqua a pressione. Tra il magazzino di Elio e l’autofficina vi era un vicolo detto sciapalot che congiungeva Via Barotti con Via Cavour. Dal balcone scorgevo solo l’uscita del vicolo e pertanto spesso ero sorpreso dall’improvviso apparire di un passante che, chissà perché, arrivato lì alzava lo sguardo proprio verso il mio balcone. Alle volte mi spaventavo, rintanandomi in cucina da dove continuavo l'osservazione con maggiori margini di sicurezza.
   Le persone che transitavano invece nella strada non mi facevano paura perché potevo vederle in lontananza e quindi valutare un eventuale pericolo, ma per lo più si trattava di persone che conoscevo bene.
   A quell’ora di solito vedevo mia nonna uscire dal portone quasi trotterellando sulle sue piccole gambe storte, mantenendosi in equilibrio con le borse della spesa in entrambe le mani. Poi passava il signor Carletto che si recava a controllare i suoi operai nel laboratorio e quindi ritornava velocemente verso il suo negozio di mobili, in Via Roma.
   Dall’altra parte della via, quella che dava sul viale, arrivava poi la signora Giorgina, con i suoi vestiti sgargianti e l’eleganza nel passo, attirando le attenzioni dei giovani meccanici dell’officina. Un po' più tardi era la volta della signora Marcella e il marito: camminavano adagio tenendosi a braccetto e discutendo sempre ad alta voce, perché entrambi deboli di udito.
   Alle volte transitavano anche persone sconosciute: un prete, un facchino, una signora elegante, una suora. Io osservavo tutti e talvolta rivolgevo loro qualche frase, ma raramente mi prestavano attenzione.
   Tra le persone che talvolta passavano nella strada, una delle più curiose era senz'altro Vigin. Questi era di corporatura obesa, con la faccia rubiconda, vestito di stracci e trascinava sempre con sé un carretto, per lo più vuoto. Viveva presso l'Istituto dei deficienti (così si chiamava) che accoglieva persone con problemi mentali, ma non pericolose.
   Vigin ogni giorno usciva dall’ospizio con il suo carretto e vagava per la città fermandosi nei cortili, offrendosi per piccoli lavoretti o soprattutto per chiedere qualcosa da mangiare. Quando passava nella mia strada alle volte si fermava sotto il mio balcone ed entrava nel cortile. Allora anch’io velocemente passavo dalla cucina alla balconata interna per assistere alla scena. Naturalmente accorreva anche mia madre e subito Vigin le diceva:
   «Teresa, dame ‘n ou.» (Teresa, dammi un uovo).
   Mia madre non si chiamava Teresa, ma credo che Vigin chiamasse così tutte le donne. Lei lo accontentava dandogli un uovo e dicendogli qualche parola scherzosa.
   Alle volte però c’era chi lo importunava, magari qualche ragazzino un po’ più grande di me. Allora Vigin si infuriava e in tutta risposta mostrava il sedere e dandosi delle grandi pacche urlava con voce roca:
    «Basme ‘l cul!»
   A quelle urla, che parevano uscire da una caverna, fuggivo spaventato.
    Altre figure per me un po’ inquietanti erano gli spazzini che venivano a ritirare l’immondizia. Anche loro provenivano dallo stesso istituto e mi intimorivano perché si muovevano in modo goffo e strano. Una volta, trovandomi per caso in cortile incontrai uno di loro. L'uomo, appena mi vide, si fermò immobile e prese a guardarmi fisso. Anch’io rimasi immobile, quasi ipnotizzato finché con uno scatto improvviso scappai di corsa lungo le scale.
   Ogni tanto passava per la via qualche ambulante:  l'arrotino con tutta la sua attrezzatura oppure l’ombrellaio e per loro c’era sempre lavoro, tanto che impiegavano alcune ore a percorrerla tutta. Tra questi, il passaggio più atteso, durante le calde giornate estive, era quello del Giasé, l’uomo del ghiaccio. Lo sentivo arrivare già da lontano attraverso il suono della sua trombetta cui faceva seguire il grido: ghiaccioooo! Poi si avvicinava spingendo il carrettino sul quale giaceva un enorme blocco di ghiaccio che solo a vederlo faceva venire i brividi di freddo. Al suo passaggio le donne scendevano in strada e allora lui, con scalpello e martello, ricavava dei piccoli blocchi e intascava le monete. A quel tempo il ghiaccio serviva soprattutto per la conservazione dei cibi, ma c’erano anche altri sistemi oltre che a rivolgersi al Giasé. Mi ricordo che il nonno, durante l'inverno, raccoglieva la neve appena caduta in una botola della grande cantina, per conservarla e utilizzarla fino alla primavera.
   L’orizzonte, dal mio balcone si estendeva tra est e ovest. Sulla desta arrivavo a intravedere i primi alberi del viale Sacerdote, dove si poteva ammirare la vista delle Alpi e del Monviso. Sulla sinistra lo sguardo arrivava sino a scorgere il passeggio su Via Roma, la strada principale della città e i tavolini nel dehor di una pasticceria. 
   Fu all’inizio di un’estate quando, per la prima volta, mi accorsi che proprio a fianco di quel locale avevano istallato un chiosco dei gelati. Sorpreso da quella visione, alla guisa di un miraggio, incominciai a urlare a squarciagola: gelatiiii! gelatiii!

   Quel chiosco mi appariva come l’ennesimo motivo di una felicità che potevo raggiungere semplicemente con lo sguardo attraverso il mio balcone. 

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