Gianmario Bonino - La felicità è un balcone (Le cose
belle della vita)
Le cose belle della vita sono quei momenti che non
hanno nulla di eccezionale, anzi fanno parte della nostra
quotidianità, ma ci regalano quella misteriosa felicità che rende
il tempo che passa meritevole di essere vissuto.
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La felicità è un balcone
Se dovessi riassumere la mia infanzia con un'immagine,
non potrei che pensare al balcone della casa dove sono nato.
Questo balcone
si affacciava proprio sopra il portone d'ingresso, al n° 19 della Via Beato
Oddino Barotti, nel centro storico di Fossano, una bella cittadina in provincia
di Cuneo.
Dal portone si
entrava in un androne con il soffitto ad arco che immetteva nel cortile
quadrato sul quale si affacciavano balconate a ringhiera.
Quell'antica
casa era stata acquistata da mio padre dopo che il nonno gli aveva consegnato
tutti i suoi risparmi per sfuggire a un’oscura storia di imbrogli di cui era
rimasto vittima. La casa era disposta su due piani e ospitava diversi
inquilini. Si diceva risalisse al settecento e fosse stata sede di un convento e
poi un'abitazione nobiliare.
Salendo le
scale, dopo la prima rampa, si notava una nicchia con esposta la statua della
Madonna.
Tutto il primo
piano era ordinato secondo un susseguirsi di grandi sale. Naturalmente era stato suddiviso in due appartamenti e il nostro era
composto da sei stanze che mi apparivano come un affascinante percorso. L'unico timore era attraversarle
nell'oscurità, rischiando di inciampare in qualche suppellettile, poiché gli
interruttori della luce erano posti ad altezze per me irraggiungibili.
Nelle due sale
più grandi vi erano enormi camini e soffitti affrescati.
Amavo questa
casa, che rappresentava una continua scoperta tra bauli, armadi, cassetti e che
potevo percorrere anche in sella al triciclo, tanto era grande.
Il balcone, quel
balcone, si raggiungeva dalla cucina che pur essendo una delle stanze più
piccole, era anche il luogo maggiormente frequentato. Forse perché era
riscaldata da una potente stufa, comunemente chiamata potagè.
Non frequentando
l’asilo (a quei tempi era roba da ricchi) avevo tutto il tempo a mia
disposizione e quel balcone diventò per me come una finestra sul mondo.
Ogni mattina,
appena sveglio, mi recavo in cucina per la colazione e trovavo la mamma intenta
ai fornelli. La radio era sempre accesa e trasmetteva canzoni con le voci di
Carla Boni, Gino Latilla e altri artisti di quel tempo.
Durante la bella
stagione la porta-finestra della cucina era sempre aperta sul balcone. Io mi
precipitavo subito fuori e facevo colazione su di un piccolo tavolino. Il sole
del mattino mi riscaldava con i suoi raggi e si rifletteva sui vasi di geranio.
Mi sentivo al
sicuro, sul mio balcone e allo stesso tempo partecipe di quel mondo che potevo
osservare da una postazione così privilegiata.
Di fronte vi era
un altro balcone. In quella casa abitava una famiglia numerosa e per la verità
piuttosto rumorosa. I bambini, più grandi di me, gridavano a squarciagola e la
madre li rimproverava strillando lei pure. Ogni tanto appariva anche la figlia
più grande, una graziosa ragazza con i capelli corti e neri. Si chiamava Maria.
Al piano terra,
sempre di fronte a me, vi era il magazzino di Elio, che di mestiere faceva il
venditore ambulante. A quell’ora era già partito da un pezzo con la sua Lancia
e sarebbe tornato solo nel primo pomeriggio. Mi salutava ogni volta che mi
vedeva sul balcone e alle volte faceva qualche commento in dialetto che non
sempre capivo.
Poco lontano,
sulla mia sinistra, erano già al lavoro i meccanici dell’officina. Riparavano
le auto e le lavavano con l’acqua a pressione. Tra il magazzino di Elio e
l’autofficina vi era un vicolo detto sciapalot
che congiungeva Via Barotti con Via Cavour. Dal balcone scorgevo solo l’uscita
del vicolo e pertanto spesso ero sorpreso dall’improvviso apparire di un
passante che, chissà perché, arrivato lì alzava lo sguardo proprio verso il mio
balcone. Alle volte mi spaventavo, rintanandomi in cucina da dove continuavo
l'osservazione con maggiori margini di sicurezza.
Le persone che
transitavano invece nella strada non mi facevano paura perché potevo vederle in
lontananza e quindi valutare un eventuale pericolo, ma per lo più si trattava
di persone che conoscevo bene.
A quell’ora di
solito vedevo mia nonna uscire dal portone quasi trotterellando sulle sue
piccole gambe storte, mantenendosi in equilibrio con le borse della spesa in
entrambe le mani. Poi passava il signor Carletto che si recava a controllare i
suoi operai nel laboratorio e quindi ritornava velocemente verso il suo negozio
di mobili, in Via Roma.
Dall’altra parte
della via, quella che dava sul viale, arrivava poi la signora Giorgina, con i
suoi vestiti sgargianti e l’eleganza nel passo, attirando le attenzioni dei
giovani meccanici dell’officina. Un po' più tardi era la volta della signora
Marcella e il marito: camminavano adagio tenendosi a braccetto e discutendo
sempre ad alta voce, perché entrambi deboli di udito.
Alle volte
transitavano anche persone sconosciute: un prete, un facchino, una signora
elegante, una suora. Io osservavo tutti e talvolta rivolgevo loro qualche
frase, ma raramente mi prestavano attenzione.
Tra le persone
che talvolta passavano nella strada, una delle più curiose era senz'altro Vigin. Questi era di corporatura obesa,
con la faccia rubiconda, vestito di stracci e trascinava sempre con sé un
carretto, per lo più vuoto. Viveva presso l'Istituto dei deficienti (così si chiamava) che
accoglieva persone con problemi mentali, ma non pericolose.
Vigin ogni giorno usciva dall’ospizio
con il suo carretto e vagava per la città fermandosi nei cortili, offrendosi
per piccoli lavoretti o soprattutto per chiedere qualcosa da mangiare. Quando
passava nella mia strada alle volte si fermava sotto il mio balcone ed entrava
nel cortile. Allora anch’io velocemente passavo dalla cucina alla balconata
interna per assistere alla scena. Naturalmente accorreva anche mia madre e
subito Vigin le diceva:
«Teresa, dame ‘n ou.» (Teresa, dammi un uovo).
Mia madre non si
chiamava Teresa, ma credo che Vigin chiamasse
così tutte le donne. Lei lo accontentava dandogli un uovo e dicendogli qualche
parola scherzosa.
Alle volte però
c’era chi lo importunava, magari qualche ragazzino un po’ più grande di me.
Allora Vigin si infuriava e in tutta
risposta mostrava il sedere e dandosi delle grandi pacche urlava con voce roca:
«Basme ‘l cul!»
A quelle urla,
che parevano uscire da una caverna, fuggivo spaventato.
Altre figure per
me un po’ inquietanti erano gli spazzini che venivano a ritirare l’immondizia.
Anche loro provenivano dallo stesso istituto e mi intimorivano perché si
muovevano in modo goffo e strano. Una volta, trovandomi per caso in cortile incontrai
uno di loro. L'uomo, appena mi vide, si fermò immobile e prese a guardarmi
fisso. Anch’io rimasi immobile, quasi ipnotizzato finché con uno scatto
improvviso scappai di corsa lungo le scale.
Ogni tanto passava
per la via qualche ambulante: l'arrotino
con tutta la sua attrezzatura oppure l’ombrellaio e per loro c’era sempre
lavoro, tanto che impiegavano alcune ore a percorrerla tutta. Tra questi, il
passaggio più atteso, durante le calde giornate estive, era quello del Giasé,
l’uomo del ghiaccio. Lo sentivo arrivare già da lontano attraverso il suono
della sua trombetta cui faceva seguire il grido: ghiaccioooo! Poi si
avvicinava spingendo il carrettino sul quale giaceva un enorme blocco di
ghiaccio che solo a vederlo faceva venire i brividi di freddo. Al suo passaggio
le donne scendevano in strada e allora lui, con scalpello e martello, ricavava
dei piccoli blocchi e intascava le monete. A quel tempo il ghiaccio serviva
soprattutto per la conservazione dei cibi, ma c’erano anche altri sistemi oltre
che a rivolgersi al Giasé. Mi
ricordo che il nonno, durante l'inverno, raccoglieva la neve
appena caduta in una botola della grande cantina, per conservarla e utilizzarla
fino alla primavera.
L’orizzonte, dal
mio balcone si estendeva tra est e ovest. Sulla desta arrivavo a intravedere i
primi alberi del viale Sacerdote, dove si poteva ammirare la vista delle Alpi e
del Monviso. Sulla sinistra lo sguardo arrivava sino a scorgere il passeggio su
Via Roma, la strada principale della città e i tavolini nel dehor di una
pasticceria.
Fu all’inizio di
un’estate quando, per la prima volta, mi accorsi che proprio a fianco di quel
locale avevano istallato un chiosco dei gelati. Sorpreso da quella visione,
alla guisa di un miraggio, incominciai a urlare a squarciagola: gelatiiii!
gelatiii!
Quel chiosco mi appariva come l’ennesimo motivo di una felicità
che potevo raggiungere semplicemente con lo sguardo attraverso il mio balcone.
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