Parlando
del corno occorre fare subito una precisazione poiché nella storia della musica
il termine Corno (horn) è stato spesso utilizzato per indicare strumenti a
volte molto diversi tra loro e accomunati forse solo dalla forma originaria che
ricordava appunto le fattezze di un “corno” di animale.
A
confondere le idee ha contribuito anche la bizzarria del caso laddove uno
strumento dalla forma “angolata” denominato corne d'angle o cor anglé (si tratta di un parente più grande dell’oboe) venne malauguratamente
tradotto in “corno inglese” per cui al tradizionale Corno (horn), per non
vederlo confuso con un’ancia doppia, venne aggiunto (non si sa da chi),
l’appellativo di “francese”. E in tutta questa confusione pare che i francesi
centrino poco o nulla!
Tutto ciò per
precisare che lo strumento di cui vorrei parlare è il “corno francese” ossia
forse il più nobile tra tutti gli strumenti della famiglia degli ottoni.
In quanto al titolo
nobiliare ci sarebbe da confondersi tra leggende e fantasie. Possiamo solo affermare
che nella storia degli ottoni è lo strumento che prima di tutti acquisisce
un’estensione sonora completa che lo introduce ben presto negli organici
orchestrali e per il quale illustri compositori (da Bach in poi) hanno dedicato
importanti composizioni.
A questo punto, si
può dire: una nobiltà di diritto!
Per quanto riguarda
la mia esperienza personale, devo però confessare che il mio rapporto con il
corno ha avuto un percorso difficile e contorto.
Essendo le mie
origini musicali di tipo bandistico, devo subito chiarire che l’idea e la
presenza del corno si è rivelata per me fin da subito un enigma, se è vero che
il primo corno che conobbi nella banda del mio paese (suonato da quel tale che
diceva di provenire dalla Scala, che in realtà era un’osteria del paese…),
altro non era che un “genis mascherato” (come ho avuto modo di narrare nel
racconto omonimo…). Semmai ero più interessato al vero “genis” o flicorno
contralto, suonato dall’amico Lino.
Una volta entrato in
Conservatorio le cose non migliorarono granché. Premetto che si era negli anni
’60 e in quella scuola di provincia gli allievi di corno erano… inesistenti! E
quando finalmente arrivarono i primi allievi non si poteva certo pretendere di
ascoltare da subito suoni nobili e vellutati. Presi comunque a frequentare quei
neofiti e in breve tempo qualcuno di loro iniziò ad accostarsi a musiche di una
certa importanza. Fu così che un giorno venni a sapere che uno di loro
stava preparando
nientepopodimeno che il Rondò dal IV Concerto di Mozart op. 495 con
l’intenzione di eseguirlo al concerto del saggio di fine anno. Me ne diede
anche un piccolo assaggio e devo dire che pur tra qualche “cri” e “cro” di
troppo il bel tema in 6\8 riusciva a fare capolino.
In verità pareva una
scelta piuttosto azzardata e in effetti anche il ragazzo era cosciente dei suoi
limiti, se è vero che ammise di “doverlo ancora perfezionare”.
Tuttavia il fatto
che per la prima volta nella storia di quel piccolo conservatorio un “corno
francese” facesse ingresso nel programma finale dei saggi era di per sé una
notizia che non poteva che incuriosire sia allievi che maestri.
Arrivò dunque il
grande giorno e ricordo che nel programma di sala il Rondò di Mozart precedeva
la mia esibizione con l’Andante e Rondò di Decker. Dunque mi trovavo già dietro
le quinte quando il mio amico cornista entrò in scena e quindi mi ritirai in un
angolino per ascoltare la sua esibizione.
Dovete sapere che il
Rondò non prevede introduzione dell’orchestra (in questo caso il pianoforte) e
quindi spetta al corno attaccare in levare il tema principale. L’inizio non fu
dei migliori. La lingua del cornista si inceppò già sulla prima nota e quelle
poche che seguirono apparvero più un lamento che una melodia. Il pianista
naturalmente si era pietrificato sul primo accordo e ora attendeva, trepidante,
notizie. L’amico cornista fece un cenno col capo e quindi attaccò con più
decisione. Questa volta le cose andarono meglio anche se il tema, basato su
note ripetute e staccate rendeva assai rischioso ogni passaggio. Certo non
tutti i suoni erano al loro posto, ma almeno la musica procedeva, seppur talora
zoppicando.
Ma ci sono cose che
un principiante proprio per sua natura non può sapere e che imparerà soltanto a
suo discapito. Dunque l’amico cornista non aveva fatto i conti con lo stress
dell’emozione, il sudore alle mani e in tutto il corpo che andava aumentando
battuta dopo battuta, mentre al contrario la secchezza del palato si faceva
sempre più invadente impedendo a poco a poco anche i movimenti più consueti
mentre il bocchino, più che appoggiato sulle labbra, pareva un trapano attivato
nell’intento di perforare l’intero cavo orale. In un tale imprevisto contesto è
più che certo che l’esecuzione si avviasse ad essere sempre più difficoltosa se
non contorta, trasformandosi in una gara
ad ostacoli dove gli stessi, ad ogni passaggio, si ingigantivano sempre più.
Conoscevo bene certi
meccanismi legati ad un’esecuzione in pubblico per esserci passato già a mio
tempo. Perciò, in quel momento soffrivo come e forse più del mio sventurato
amico.
Per farla breve, la
sua prestazione andò via via peggiorando attraverso suoni che anziché uscire,
rimanevano conficcati in qualche antro oscuro di quel labirinto di tubi oppure
uscivano un attimo prima o dopo del dovuto e quindi nel momento sbagliato. Ogni
volta che il corno riprendeva il tema del rondò, questo appariva denso di una
serie di variazioni sempre più grottesche fino al culmine del finale,
abbandonato nelle sole mani dell’esterrefatto pianista, mentre l’amico
cornista, separato ormai il bocchino dalle labbra tumefatte, non poteva far
altro che scrollare il capo con rassegnazione.
Il benevolo pubblico
di un saggio scolastico non poteva far mancare gli applausi anche in presenza
di esecuzioni precarie. Cosi fu anche in quell’occasione, seppure l’amico
cornista fosse uscito dalla scena senza neanche l’inchino di ringraziamento.
Preparandomi a mia volta per l’ingresso in scena, me lo trovai faccia a faccia
tra le quinte e gli riconobbi una forza morale non indifferente se fu in grado
di sostenermi dicendo: «Ora tocca a te
riscattare l’onore degli ottoni!»
Questa fu, si può
dire, la mia iniziazione cornistica.
Poi ci fu l’entrata
nell’olimpo quando, una volta conseguito il diploma, incominciai ad essere
invitato a suonare con un’orchestra o l’altra. Mi capitava spesso in quegli
anni ’70 di essere ingaggiato come sostituto per qualche settimana
dall’orchestra Sinfonica della Rai di Torino.
Si trattava, già
allora, di uno dei migliori complessi italiani e tra i professori che vi facevano
parte vi erano anche solisti di fama e professori di conservatorio.
Naturalmente in quelle occasioni il mio ruolo era spesso marginale e di
conseguenza occupavo sempre l’ultimo posto tra le trombe in organico. Questo
faceva si che, per una questione logistica, mi trovassi ad avere alla mia
destra la fila dei corni, con il primo corno proprio al mio fianco. Ciò mi
consentì di sviluppare una consuetudine non solo con i colleghi trombettisti,
ma anche con i cornisti. Ricordo che spesso questi ultimi scherzavano in merito
a quel termine onomatopeico che definisce gli errori degli ottoni “scrocchi”. E
in verità anche in quel luogo illustre poteva capitare di udire, qua e là,
qualche suono inconsueto nonostante si trattasse di colleghi di alto livello
professionale. E ad essere sincero non facevo mancare neppure qualche mio
piccolo contributo.
Poi, il vecchio
primo corno andò in pensione e accadde qualcosa, per me, di straordinario.
Ad un successivo
contratto mi trovai accanto un nuovo primo corno. Lo salutai ossequiosamente e
come primo impatto fui colpito dal suo accento ispanico. Ricordo che eravamo
entrambi provvisti di barba sul volto e
questo fu subito motivo di simpatia. Poi iniziò la prova (mi sembra di ricordare
una sinfonia di Mahler, forse la sesta) e lo sentii suonare. Rimasi folgorato.
Ricordo che il primo pensiero fu: ma un corno può suonare così bene? Per me era
un fatto inaspettato. Avevo a fianco un collega che suonava ad un livello
celestiale, mentre tutti gli altri, anche i migliori parevano con i piedi ben
piantati nella terra.
Quel signore
rispondeva al nome di Guelfo Nalli, seppi poi, uno dei più grandi cornisti
viventi.
Nato in Italia,
subito emigrato in Argentina, dopo il conservatorio a Buenos Aires aveva
iniziato una brillante carriera in varie orchestre e negli anni ’60 già si
esibiva come solista nell’America del nord e del sud. Come fosse capitato a
Torino non è dato sapere.
In ogni caso per me
fu un incontro illuminante. Mi aiutò a comprendere come il mondo degli ottoni,
in Italia, fosse rimasto un po' indietro rispetto al resto del mondo (ma anche
solo all'Europa) e che la strada era dunque molto più lunga e difficile di
quanto si poteva immaginare. Allo stesso tempo verificai con le mie orecchie
che un ottone poteva suonare allo stesso livello di qualsiasi altro strumento e
che quella storia del “cri” e “cru” doveva essere relegata a leggenda dei tempi
passati. Posso dirlo con certezza: in quelle (purtroppo) rare occasioni che lo
ebbi orgogliosamente al mio fianco non sono mai stato testimone di un suo
“scrocco”. Non che fosse infallibile, nessuno lo è, ma il fatto è che i suoi
eventuali errori, se avvenivano, si materializzavano in un livello talmente
superiore e in un modo talmente sofisticato, che era quasi impossibile accorgersene.
p.s.
Qualche anno più
tardi, apparve tra le pagine di un testo scolastico di educazione musicale una
curiosa fotografia che volendo rappresentare alcuni strumenti dell’orchestra
racchiudeva in sé la presenza di un corno e di una tromba. Entrambi gli
esecutori portavano la barba.
Purtroppo
quel testo è stato smarrito o forse affidato a una mano che lo ha dimenticato
in qualche scaffale. Per fortuna abbiamo una memoria che alle volte è anche
meglio di una fotografia.
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