mercoledì 12 aprile 2017

Tato e la Banda

Gianmario Bonino
Suoni la tromba e intrepido...” ed. Phasar

Tato e la Banda

entrare a far parte della Banda aprì a Tato un mondo nuovo, fatto di suoni, di musiche e di persone. Non era poco per un bambino di dieci anni.
La sede della banda “Arrigo Boito” era al piano terra in un vecchio caseggiato del centro storico: un’unica grande sala che Tato già frequentava come allievo, ma che nelle sere del martedì e venerdì si animava di un mondo variegato. Un mondo maschile (perché allora era impensabile vedere delle donne in banda), di provenienza sociale medio-bassa: studenti, operai, artigiani. Tutte le età erano rappresentate (anche se Tato era comunque un’eccezione), ma in un tale ambiente venivano azzerate tutte le differenze. L’unica differenza la poteva fare il merito ed era un merito che però veniva condiviso tra tutti. Così anche Tato, nonostante la giovane età, divenne subito uno di loro, con tutti i diritti e i doveri.

Tato era sempre uno dei primi ad arrivare alla prova, in compagnia del padre, anche perché la sua casa distava poche centinaia di metri dalla sede della banda.
Era curioso osservare tutte quelle persone che entravano nella sala con sotto il braccio contenitori dalle dimensioni più diverse. Il maestro era sempre già presente e intento a scrivere nuove partiture o distribuire gli spartiti sui leggii. A poco a poco iniziava il riscaldamento degli strumenti che determinava un turbinio di suoni in cui ognuno poteva inserirsi suonando ciò che più gli piaceva, tanto era quasi impossibile distinguere il proprio suono da quelli altrui. Finalmente il maestro saliva sul podio e, afferrata la bacchetta, alzava la mano destra e con un gesto da sinistra a destra ordinava il “cessate il fuoco”, cioè il silenzio. Tutti obbedivano come soldati: era fantastico cosa si potesse ottenere solo spostando l’aria con una bacchetta, pensava Tato.
Poi il maestro indicava il pezzo da eseguire. In genere si iniziava con una marcetta, di quelle che poi venivano suonate durante le sfilate. Le marcette, per quanto facili all’ascolto, risultavano assai ostiche per un principiante come Tato, ma il maestro lo aveva rassicurato: «Suona solo le note che riesci a fare, al resto ci penseranno Giorgio e Luigi, che sono più esperti». Come avrete capito, Giorgio e Luigi suonavano anche loro la tromba, prima e seconda; va da sé che a Tato era stata assegnata la parte di terza.
Quindi si passava allo studio dei brani da concerto. Il repertorio si basava principalmente su fantasia di operette (La vedova allegra, Madama di Tebe), opere ( Traviata, Ernani, Cavalleria rusticana) e classici quali Cavalleria leggera, Poeta e contadino, In un mercato persiano e poi naturalmente non mancavano le marce sinfoniche e le fantasie di autori italiani.
Nella sala prove la disposizione degli strumenti corrispondeva alla cosiddetta “riforma Vessella”, dal nome del celebre maestro che aveva stabilito quali strumenti dovessero far parte della banda e anche in quale posizione andassero collocati. Questo, pensò Tato, aveva evitato molte discussioni.
La banda era un caleidoscopio di persone le più curiose e diverse. Un po’ alla volta anche Tato aveva imparato a conoscerle. Le persone con cui aveva più legato, almeno all’inizio, erano i suoi due colleghi, Giorgio e Luigi. Giorgio faceva l’operaio in fonderia, mentre Luigi era impiegato in una piccola ditta. Tra i tipi più curiosi vi era il signor Secchi: perennemente con il suo corno sottobraccio, non si capiva mai, quando parlava, se era serio o scherzava. Forse non lo sapeva nemmeno lui. Anche quando suonava era difficile comprendere se scherzava o meno, certo era che al maestro passava subito la voglia di ridere. Secchi abitava in una casa adiacente a quella di Tato e spesso, quando Tato si esercitava, egli rispondeva con il corno con curiosi messaggi. Poi alla sera, incontrando Tato, gli confidava:
«Oggi sono stato a suonare alla Scala!».
Tato non capiva, ma più tardi scoprì che la Scala altro non era che una celebre osteria del paese…

La prima uscita
Con la banda si avvicinava intanto l’atteso momento dell’esordio pubblico.
Normalmente, dopo la pausa invernale, il calendario prendeva avvio con la festa di S. Giuseppe, ma quell’anno, in pieno febbraio, avvenne l’ingresso del nuovo Vescovo della diocesi.
Per la città era un appuntamento assai importante e la banda non poteva mancare.
Il maestro sulle prime era indeciso se convocare anche il piccolo Tato («Farà freddo e dobbiamo sfilare…»), ma poi capì che la delusione per il ragazzo sarebbe stata troppo grande e allora diede il suo assenso.
L’appuntamento era per il primo pomeriggio di una domenica plumbea, sul piazzale della chiesa dei Battuti rossi, dove cominciava la via principale che conduceva alla cattedrale. Nell’attesa dell’auto blu con il Vescovo, incominciò a nevicare.
Niente sfilata, addio esordio, pensò Tato. Invece, quando finalmente l’auto blu apparve dalla salita del Borgo e si fermò sul piazzale, il Vescovo scese, salutò le autorità e disse:
«Andiamo pure a piedi, non sarà un po’ di neve a fermare il nuovo vescovo!».
Allora la banda si preparò in tutta fretta alla testa del corteo e diede il via alla sfilata. Tato indossava un cappotto grigio, ma si erano dimenticati di procurargli il cappello d’ordinanza e, visto il clima, indossò un passamontagna colorato. Sfilando nel mezzo dello schieramento sentiva gli occhi della gente su di lui, il più giovane della banda. Suonò solo poche note e non tutte corrette: era già tanto andare al passo e stare attento all’allineamento della fila.

I servizi della banda
Come detto, di norma la banda esordiva con un’esibizione presso la chiesa di S. Giuseppe, il giorno della festa del santo. Pochi spettatori infreddoliti assistevano all’evento. Tuttavia in quell’occasione Tato imparò a capire che con la banda i momenti salienti iniziavano spesso subito dopo quelli ufficiali.
Infatti, terminato il concertino, la banda veniva ospitata nella vecchia osteria proprio di fronte alla chiesa. La tavola era imbandita con vino e panini imbottiti di salame o acciughe al verde. Chiedendo, era forse possibile ottenere anche qualche bibita analcolica. Il locale era sempre affollato, anche perché in quelle ore si correva la corsa ciclistica Milano-Sanremo e i molti appassionati seguivano alla televisione la telecronaca di Adriano De Zan.
Terminato lo spuntino, rimanevano sul tavolo solo le bottiglie di vino. Si continuava a chiacchierare, sbirciando la corsa in televisione, ma l’atmosfera cambiava improvvisamente non appena Gepin rimontava il suo clarinetto. Era quello il segnale: allora apparivano anche una tromba, una sax tenore, un basso. Finalmente Gepin attaccava un motivo, le prime battute in solitudine finché a uno a uno si accodavano gli altri strumenti.
Il concerto, quello vero, era finalmente cominciato e non si poteva prevedere quando sarebbe finito. Un motivo dopo l’altro: era sempre Gepin a dare il la e gli altri lo seguivano ovunque li portasse la sua fantasia. Si poteva passare da una polka a un valzer, da una mazurca a un galop, ma era sempre Gepin a indicare la strada. Piero al basso suggeriva le armonie, suo fratello al sax organizzava il controcanto, la tromba supportava e ogni tanto concedeva a Gepin un meritato riposo per rinfrescare la gola secca. A poco a poco altri si univano al gruppo: il ritmo di un tamburo, la cassa per battere il tempo e magari qualche strumento d’accompagnamento, ma senza troppo disturbare. Per partecipare al concertino infatti bisognava possedere abilità accertata e anzianità di servizio. Un giovane non avrebbe mai ardito mettersi in mezzo. Solo il tempo avrebbe stabilito quando e chi.
Erano momenti di estasi per Tato. Era come assistere alla creazione della musica: le poche note del clarinetto avevano il potere di ipnotizzare gli altri strumenti che docilmente, uno a uno, iniziavano a dialogare con la melodia, ognuno a suo modo, ognuno con una diversa funzione. Il tutto senza lo straccio di uno spartito. Improvvisazione organizzata allo stato puro. Era la più grande e convincente lezione di contrappunto a cui si poteva assistere.
Naturalmente non tutto scorreva perfetto. Ogni tanto qualche piccola stonatura, qualche armonia scorretta, ma la bravura dei solisti, l’impegno e l’entusiasmo di tutti determinavano un clima di euforia e decretavano il successo. Applausi, richieste di bis, dediche varie. Quello era il vero spettacolo!

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