Gianmario Bonino
“Suoni la tromba e intrepido...”
ed. Phasar
Tato e la Banda
… entrare a far parte della Banda
aprì a Tato un mondo nuovo, fatto di suoni, di musiche e di persone.
Non era poco per un bambino di dieci anni.
La sede della banda
“Arrigo Boito” era al piano terra in un vecchio caseggiato del
centro storico: un’unica grande sala che Tato già frequentava come
allievo, ma che nelle sere del martedì e venerdì si animava di un
mondo variegato. Un mondo maschile (perché allora era impensabile
vedere delle donne in banda), di provenienza sociale medio-bassa:
studenti, operai, artigiani. Tutte le età erano rappresentate (anche
se Tato era comunque un’eccezione), ma in un tale ambiente venivano
azzerate tutte le differenze. L’unica differenza la poteva fare il
merito ed era un merito che però veniva condiviso tra tutti. Così
anche Tato, nonostante la giovane età, divenne subito uno di loro,
con tutti i diritti e i doveri.
Tato era sempre uno dei
primi ad arrivare alla prova, in compagnia del padre, anche perché
la sua casa distava poche centinaia di metri dalla sede della banda.
Era curioso osservare
tutte quelle persone che entravano nella sala con sotto il braccio
contenitori dalle dimensioni più diverse. Il maestro era sempre già
presente e intento a scrivere nuove partiture o distribuire gli
spartiti sui leggii. A poco a poco iniziava il riscaldamento degli
strumenti che determinava un turbinio di suoni in cui ognuno poteva
inserirsi suonando ciò che più gli piaceva, tanto era quasi
impossibile distinguere il proprio suono da quelli altrui. Finalmente
il maestro saliva sul podio e, afferrata la bacchetta, alzava la mano
destra e con un gesto da sinistra a destra ordinava il “cessate il
fuoco”, cioè il silenzio. Tutti obbedivano come soldati: era
fantastico cosa si potesse ottenere solo spostando l’aria con una
bacchetta, pensava Tato.
Poi il maestro indicava
il pezzo da eseguire. In genere si iniziava con una marcetta, di
quelle che poi venivano suonate durante le sfilate. Le marcette, per
quanto facili all’ascolto, risultavano assai ostiche per un
principiante come Tato, ma il maestro lo aveva rassicurato: «Suona
solo le note che riesci a fare, al resto ci penseranno Giorgio e
Luigi, che sono più esperti». Come avrete capito, Giorgio e Luigi
suonavano anche loro la tromba, prima e seconda; va da sé che a Tato
era stata assegnata la parte di terza.
Quindi si
passava allo studio dei brani da concerto. Il repertorio si basava
principalmente su fantasia di operette (La
vedova allegra, Madama
di Tebe), opere (
Traviata, Ernani,
Cavalleria rusticana) e classici quali
Cavalleria leggera,
Poeta e contadino, In
un mercato persiano e poi naturalmente non
mancavano le marce sinfoniche e le fantasie di autori italiani.
Nella sala prove la
disposizione degli strumenti corrispondeva alla cosiddetta “riforma
Vessella”, dal nome del celebre maestro che aveva stabilito quali
strumenti dovessero far parte della banda e anche in quale posizione
andassero collocati. Questo, pensò Tato, aveva evitato molte
discussioni.
La banda era un
caleidoscopio di persone le più curiose e diverse. Un po’ alla
volta anche Tato aveva imparato a conoscerle. Le persone con cui
aveva più legato, almeno all’inizio, erano i suoi due colleghi,
Giorgio e Luigi. Giorgio faceva l’operaio in fonderia, mentre Luigi
era impiegato in una piccola ditta. Tra i tipi più curiosi vi era il
signor Secchi: perennemente con il suo corno sottobraccio, non si
capiva mai, quando parlava, se era serio o scherzava. Forse non lo
sapeva nemmeno lui. Anche quando suonava era difficile comprendere se
scherzava o meno, certo era che al maestro passava subito la voglia
di ridere. Secchi abitava in una casa adiacente a quella di Tato e
spesso, quando Tato si esercitava, egli rispondeva con il corno con
curiosi messaggi. Poi alla sera, incontrando Tato, gli confidava:
«Oggi sono stato a
suonare alla Scala!».
Tato non capiva, ma più
tardi scoprì che la Scala altro non era che una celebre osteria del
paese…
La prima uscita
Con la banda si
avvicinava intanto l’atteso momento dell’esordio pubblico.
Normalmente, dopo la
pausa invernale, il calendario prendeva avvio con la festa di S.
Giuseppe, ma quell’anno, in pieno febbraio, avvenne l’ingresso
del nuovo Vescovo della diocesi.
Per la città era un
appuntamento assai importante e la banda non poteva mancare.
Il maestro sulle prime
era indeciso se convocare anche il piccolo Tato («Farà freddo e
dobbiamo sfilare…»), ma poi capì che la delusione per il ragazzo
sarebbe stata troppo grande e allora diede il suo assenso.
L’appuntamento era
per il primo pomeriggio di una domenica plumbea, sul piazzale della
chiesa dei Battuti rossi, dove cominciava la via principale che
conduceva alla cattedrale. Nell’attesa dell’auto blu con il
Vescovo, incominciò a nevicare.
Niente sfilata, addio
esordio, pensò Tato. Invece, quando finalmente l’auto blu apparve
dalla salita del Borgo e si fermò sul piazzale, il Vescovo scese,
salutò le autorità e disse:
«Andiamo pure a piedi,
non sarà un po’ di neve a fermare il nuovo vescovo!».
Allora la banda si
preparò in tutta fretta alla testa del corteo e diede il via alla
sfilata. Tato indossava un cappotto grigio, ma si erano dimenticati
di procurargli il cappello d’ordinanza e, visto il clima, indossò
un passamontagna colorato. Sfilando nel mezzo dello schieramento
sentiva gli occhi della gente su di lui, il più giovane della banda.
Suonò solo poche note e non tutte corrette: era già tanto andare al
passo e stare attento all’allineamento della fila.
I servizi della
banda
Come detto, di norma la
banda esordiva con un’esibizione presso la chiesa di S. Giuseppe,
il giorno della festa del santo. Pochi spettatori infreddoliti
assistevano all’evento. Tuttavia in quell’occasione Tato imparò
a capire che con la banda i momenti salienti iniziavano spesso subito
dopo quelli ufficiali.
Infatti, terminato il
concertino, la banda veniva ospitata nella vecchia osteria proprio di
fronte alla chiesa. La tavola era imbandita con vino e panini
imbottiti di salame o acciughe al verde. Chiedendo, era forse
possibile ottenere anche qualche bibita analcolica. Il locale era
sempre affollato, anche perché in quelle ore si correva la corsa
ciclistica Milano-Sanremo e i molti appassionati seguivano alla
televisione la telecronaca di Adriano De Zan.
Terminato lo spuntino,
rimanevano sul tavolo solo le bottiglie di vino. Si continuava a
chiacchierare, sbirciando la corsa in televisione, ma l’atmosfera
cambiava improvvisamente non appena Gepin rimontava il suo
clarinetto. Era quello il segnale: allora apparivano anche una
tromba, una sax tenore, un basso. Finalmente Gepin attaccava un
motivo, le prime battute in solitudine finché a uno a uno si
accodavano gli altri strumenti.
Il concerto, quello
vero, era finalmente cominciato e non si poteva prevedere quando
sarebbe finito. Un motivo dopo l’altro: era sempre Gepin a dare il
la e gli altri lo seguivano ovunque li portasse la sua fantasia. Si
poteva passare da una polka a un valzer, da una mazurca a un galop,
ma era sempre Gepin a indicare la strada. Piero al basso suggeriva le
armonie, suo fratello al sax organizzava il controcanto, la tromba
supportava e ogni tanto concedeva a Gepin un meritato riposo per
rinfrescare la gola secca. A poco a poco altri si univano al gruppo:
il ritmo di un tamburo, la cassa per battere il tempo e magari
qualche strumento d’accompagnamento, ma senza troppo disturbare.
Per partecipare al concertino infatti bisognava possedere abilità
accertata e anzianità di servizio. Un giovane non avrebbe mai ardito
mettersi in mezzo. Solo il tempo avrebbe stabilito quando e chi.
Erano momenti di estasi
per Tato. Era come assistere alla creazione della musica: le poche
note del clarinetto avevano il potere di ipnotizzare gli altri
strumenti che docilmente, uno a uno, iniziavano a dialogare con la
melodia, ognuno a suo modo, ognuno con una diversa funzione. Il tutto
senza lo straccio di uno spartito. Improvvisazione organizzata allo
stato puro. Era la più grande e convincente lezione di contrappunto
a cui si poteva assistere.
Naturalmente non tutto
scorreva perfetto. Ogni tanto qualche piccola stonatura, qualche
armonia scorretta, ma la bravura dei solisti, l’impegno e
l’entusiasmo di tutti determinavano un clima di euforia e
decretavano il successo. Applausi, richieste di bis, dediche varie.
Quello era il vero spettacolo!
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