lunedì 3 settembre 2018

Il travestimento del Genis


La storia del genis ci regala un’appendice che non fa che confermare l’aura di mistero e tenerezza che circonda questo strumento.
Come abbiamo visto nel racconto precedente, il genis si trovò suo malgrado a contendere un’impossibile egemonia nei confronti del nobile corno francese.
Non si sa se l’artificio di cui ora parleremo sia stato opera della mente geniale di un artigiano o dell’intuito di qualche suonatore. Fatto sta che il genis mutò le proprie spoglie per travestirsi appunto nelle parvenze di un corno francese.
Come si attuò questo diabolico progetto?
Per spiegarlo dobbiamo addentrarci in questioni tecniche di non facile comprensione che cercheremo di chiarire con adeguata semplicità.
I non addetti ai lavori devono sapere che tra le varie caratteristiche della famiglia dei flicorni, la più utile da un punto di vista pratico è quella determinata dalla loro intercambiabilità. Ossia ogni esecutore può passare con una certa facilità da un modello all’altro mantenendo inalterata la chiave di lettura ed il rapporto tra i vari suoni armonici. Cambiano unicamente le dimensioni dell’imboccatura che con una certa pratica si può assecondare.
Il corno presenta invece caratteristiche tecniche più complesse a causa dello sviluppo dei suoi suoni armonici non assimilabile a quello dei flicorni. Inoltre la predisposizione dei tasti per la mano sinistra (anziché la destra come su tutti i flicorni) rende l’apprendimento ancora più difficoltoso. Furono infatti queste particolarità che contribuirono in un primo momento alla convenienza di sostituire, nell’organico bandistico, i corni con i genis. Tuttavia, considerando la tradizione e le  qualità timbriche del corno, non era difficile pronosticare  un pronto riscatto del più nobile strumento. Fu a questo punto che una mente geniale quanto diabolica partorì l’idea del travestimento.
Dunque si prese un tubo della lunghezza del genis (più corto di quelle di un corno) e lo si rese un po’ più sottile. Poi si disegnò uno strumento in tutto simile alla forma del corno, ma attenzione,  con l’impugnatura dei tasti affidata alla mano destra. Ora il  nostro strumentista, pur adattandosi all’imboccatura del corno, ritrovava sullo strumento gli stessi suoni armonici del genis!
Insomma, a vederlo dall’esterno (e per i più anche dall’interno) pareva proprio che il suonatore di genis ora si fosse trasformato in un suonatore di corno!
Il genis dato per defunto era dunque rinato sotto mentite spoglie!
Ma di una lotta impari si trattava. Un travestimento, per quanto ben riuscito, si differenzia sempre dall’originale e prima o poi viene scoperto.
Il timbro, l’estensione, l’intonazione, le parti in Fa anziché in Mi bemolle e persino la negata ammissione in Conservatorio continuavano a evidenziare più le differenze che le uniformità.
Ho conosciuto diversi suonatori di corno-genis.
Uno fra tutti è rimasto impresso nella mia memoria. Si chiamava Secchi, ricordo solo il cognome che lo rappresentava bene nel suo aspetto. Piccolo e magro, il signor Secchi (così lo chiamavo) abitava nel mio stesso quartiere ed anzi le nostre case erano confinanti nei muri interni. In pratica non era possibile osservarci dalle rispettive finestre, ma in cambio potevamo ascoltare a vicenda i suoni dei nostri strumenti. Lui, pensionato, suonava il corno-genis nella banda del paese, mentre io ero un ragazzino che da poco aveva iniziato l’apprendistato con la tromba.
Mi capitava di esercitarmi al pomeriggio nella mia cameretta e alle volte, oltre i muri, mi giungeva il suono del suo corno-genis nel tentativo bizzarro, di imitare i miei esercizi del Gatti. Ancora non sapevo chi fosse questo misterioso simulatore e lo conobbi personalmente qualche tempo più tardi quando iniziai a partecipare alle scuole serali della banda. Appena iniziai cautamente a preludiare mi si si avvicinò dicendomi:
«Tu devi essere il mio vicino di casa. Ti ho riconosciuto dallo stile!»
Mi guardava con aria sorniona con il suo corno-genis sotto il braccio, in un atteggiamento che incuteva rispetto e anche un po’ di timore.
Mi resi subito conto che si trattava di un personaggio particolare e non capivo mai se parlava seriamente o per scherzo. Era sempre di buon umore e subito disponibile a dispensare consigli e sentenze. Teneva sempre un atteggiamento molto aristocratico e sembrava voler prendere le distanze dagli altri bandisti specie quando asseriva:
«Vengo qui per la compagnia, ma sono abituato a ben altri palcoscenici. Pensate che spesso mi chiamano a suonare alla Scala!»
Noi giovani eravamo tentati di credere a quelle affermazioni sino a quando qualcuno più furbo ci faceva osservare che la Scala in questione altro non era che una celebre osteria della città e del resto il suo pesante alito non faceva che confermare tali supposizioni. Tuttavia quella della Scala sembrava proprio una sua ossessione quando asseriva sempre seriamente di poter suonare alla Scala senza neppure uscire di casa… e la scala era quella di accesso al suo pianerottolo!
La sua baldanza si riduceva però di molto quando giungeva il maestro e iniziavano le prove della banda. Ricordo che sedeva proprio accanto a due suonatori di genis (quello vero) verso i quali ostentava la sua diversità. Il maestro conosceva i suoi polli e spesso interrompeva l’esecuzione per verificare la precisione delle varie sezioni. Quando toccava ai genis-corni eravamo allora introdotti nei massimi misteri dell’armonia, perché il medesimo accordo, ad ogni tentativo, assumeva le sembianze più misteriose quasi mai corrispondenti a quello che il maestro leggeva in partitura. Allora il maestro perdeva la pazienza e incominciava a inveire vero quei tre poveretti. I due genis ascoltavano con lo sguardo abbassato, mentre il signor Secchi faceva roteare gli occhi furbetti verso tutti i presenti quasi gli improperi del maestro non lo riguardassero. Poi, durante la pausa, a qualcuno che gli si avvicinava, diceva con superiorità:
«Il maestro non capisce. Il fatto è che io improvviso: oggi una nota, domani un’altra, la musica è libertà!»
Poi ci fu quella volta della rappresentazione del Trovatore nel teatro della nostra cittadina. Non era un fatto consueto e dunque quasi tutti i bandisti acquistarono un biglietto. Ma stranamente il signor Secchi non era tra questi. Allora fu grande il nostro stupore quando, nella scena “Di quella pira”, tra gli armigeri pronti ad arrestare Manrico, fece la sua apparizione proprio il signor Secchi! Finalmente è entrato nel mondo dell’opera lirica!, pensai. La sera successiva quando ci ritrovammo alla consueta scuola della banda tutte le attenzioni furono rivolte proprio a lui per la curiosità di apprendere qualche particolare della sua avventura, ma il signor Secchi, come suo solito, mantenne un atteggiamento vago e distaccato, limitandosi a dire:
«Cosa volete, l’orchestra era al completo e allora ho dovuto ripiegare su di un ruolo minore».

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