Felice è un suonatore ambulante che gira i paesi con la fisarmonica al collo. Siamo nel 1945. Ritrovata per caso una cassa di strumenti musicali, dispersa dal disperso esercito italiano, decide di formare una Banda. Affida l’incarico del reclutamento a Giuanin, un ragazzino di quindici anni che così ci racconta quel primo incontro….
(Da
“La Banda Felice – racconti)
Cercare i tipi adatti, aveva detto Felice.
Incominciai a prepararmi un discorso. Dunque, Felice Suonabene, hai presente,
vuole formare una banda. Bisogna dire una banda musicale per evitare equivoci.
Gli strumenti li mette lui. E' vero non ha mai un soldo, ma quegli strumenti
sono un lascito. Un lascito di qualcuno. Dice che pensa a tutto lui, basta
essere disponibili. In fondo si tratta solo di un passatempo. Poteva andare.
La ricerca fu meno difficile del previsto,
perché restando sempre in orbita della crota, i tipi giusti non
mancavano. E poi, in un periodo così disperato, qualsiasi cosa che aiutasse ad
evadere dalla realtà era gradita.
Quella sera si presentarono due mie
coetanei, Ciano e Caio, Lino che aveva vent'anni e si era salvato dalla leva
perché orfano di padre, poi tra gli adulti si presentarono Amos, afflitto da
una leggera zoppia, Renato, detto Carnera per la mole e a sentire i medici che
lo avevano riformato, ritardato mentale e infine Pino, non vedente. Un bella e
varia compagnia. Senza femmine, naturalmente, ma la banda, almeno allora, era
cosa da uomini.
Felice conosceva quasi tutti, ma quella
sera ci guardò come se non ci avesse mai visto prima, massaggiandosi la folta
barba e grattandosi l'orecchio. Poi fu di poche parole:
«Una banda, non è come suonare da soli.
Una banda richiede disciplina. Ma prima di tutto bisogna imparare a suonare.
Cosa non facile, ma nemmeno impossibile. Dipende tutto dall'orecchio».
I nostri sguardi si posarono sulle
orecchie altrui senza capire.
Felice sapeva essere convincente in ogni
occasione. Senza tanti preamboli incominciò la distribuzione dei pani e dei
pesci:
«A te la cornetta, a te il bombardino, per
i clarini dovrete aspettare perché mancano le ance, vedrò di procurarle».
A me toccò lo strumento più strano, quello
tutto attorcigliato, con tre tasti.
Felice mi disse: «Si tratta di un corno, insomma: un-pa un-pa, poi
capirai». In quanto a quel grosso arnese che Felice chiamava basso nessuno
ebbe dei dubbi sul fatto che fosse affidato, diciamo per affinità, a Carnera.
Per ultimo tocco a Pino, immobile come al solito nel punto in cui lo aveva
lasciato Amos, la sua inseparabile guida: «Pino, a te la cassa, il mazzuolo
nella destra e la sinistra sulla spalla di Amos che suonerà i piatti».
«Ma io sono mancino» replicò Pino.
«E allora invertitevi, che differenza fa».
Ed eccoci lì, con in mano ognuno il suo
catorcio di strumento e lo sguardo smarrito.
«Su, non state lì impalati, prendete
confidenza, provate a suonare» ci esortò Felice.
Forse esistevano metodi didattici più
raffinati, ma abituati com'eravamo al fai da te della vita, ci prestammo a quel
gioco. Si impara tanto dall'esperienza, importante è farlo in fretta.
Quella sera uscimmo dalla crota
ognuno con il proprio strumento e iniziammo l'apprendistato. Dal giorno
seguente, tra le case del nostro piccolo paesino, incominciarono ad udirsi
strani rumori, lamenti, versi animaleschi che un po' alla volta si
trasformarono in suoni più o meno piacevoli. Qualcuno si incuriosì per quelle
strane fonti sonore, ma nessuno si lamentò. Erano altri i rumori molesti, come
il rombare degli aerei da bombardamento e lo sferragliare degli autocarri
tedeschi. Quei suoni rappresentavano invece una nuova seppur piccola speranza.
Chi si esercitava nel cortile di casa e
chi preferiva la quiete della campagna. Anche la didattica era lasciata alla
libera fantasia. Nessuno disponeva di manuali e pertanto si trattava di
sviluppare una conoscenza empirica dello strumento. Trovato un suono, un
tentativo dopo l'altro, si provava a scendere e salire cercando altri suoni. Il
mezzo poteva essere la melodia di una vecchia canzone da riprodurre più o meno
fedelmente aggiungendo una nota alla volta. Di leggere uno spartito non se ne
parlava, quantomeno per la mancanza di materia prima, ma nessuno ne soffriva
perché gli archivi delle nostre menti erano abbastanza forniti.
Trascorse una settimana e ancora passò
Felice sotto le mie finestre: «E' domani il giorno» mi disse con fare
circospetto.
Era un giovedì, il giorno dei matti.
Felice ci assegnò i compiti e fu una curiosa sorpresa scoprire che ognuno di
noi doveva svolgere una mansione specifica:
«Il clarino e la cornetta devono fare la
melodia» disse Felice e con la fisarmonica tra le braccia intonò una allegra
marcetta:
«Questa è un motivetto che ho inventato
proprio per voi. L'ho chiamato La marcia delle scrofe perché i maiali
sono gli animali più generosi che conosco, a cui dobbiamo grande
riconoscenza.
La
marcia è poi dedicata alle scrofe che sono le loro mamme e tutti vogliono bene
alla propria mamma anche quelli che non l'hanno mai conosciuta».
Sembrava commuoversi a quelle parole, ma
subito attaccò nuovamente la melodia dicendo: «Mettetevela bene nelle
orecchie», poi riprese «bene, ora tocca all'accompagnamento: la cassa deve
battere il tempo: tun, tun, tun, tun, mentre il tamburo farà il controtempo,
un-tun, un-tun. Tu, Carnera, con il basso devi seguire la cassa mentre Giuanin
con il genis deve seguire il tamburo».
«Ma quale suono devo fare?» chiese
Carnera.
«Quello che riesci, per il momento vanno
tutti bene, l'importante è seguire il tempo. Vale anche per te, Giuanin».
Infine toccò al bombardino: «Tu, attento, devi fare il controcanto».
«Sarebbe come la contraerea?» disse Caio.
«Lascia stare la guerra. La musica è una
cosa seria e soprattutto fatta di solidarietà. Tu potrai suonare quello che
vuoi, appena la melodia si riposa, capito?».
Gli ordini erano chiari, ma tra il dire e
il fare....
Dunque, Felice attaccava la Marcia
delle scrofe con la sua fisarmonica e noi tutti, zoppicando, cercavamo di
imitarlo. Ad orecchi sensibili, l'effetto doveva apparire disastroso, ma
essendo ognuno di noi impegnato in una lotta estrema con il proprio strumento,
la pura sensazione di suonare insieme corrispondeva ad un successo. «E' una
questione di affiatamento» ripeteva Felice «riproviamo».
La seconda canzone che Felice ci insegnò
fu O bella ciao.
«Questa suoniamola piano, anzi pianissimo,
per il momento».
Dopo qualche settimana di esercizi, Felice
ci fece un'altra sorpresa. Un giovedì sera ci trovammo di fronte anche i suoi
due compari, Butal e Rataplan, nei loro sgargianti costumi
variopinti.
«Questa sera suoneremo con dei
professionisti, non fatemi fare brutte figure!».
In verità suonarono
soprattutto loro, noi cercammo timidamente di non disturbare troppo. Alla fine
ci fecero anche i complimenti, ma credo che si riferissero più che altro al
vino che aveva portato Carnera.
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