Ci
sono persone, incontrate nel corso della vita, per le quali alle volte si
avverte il rammarico di non averne approfondito meglio la conoscenza. Ricordando
piccoli episodi, magari uniti da un debole filo, riaffiorano allora quesiti e
desideri destinati purtroppo a rimanere tali.
Conobbi
personalmente il maestro di trombone una sera di tanti anni fa durante la prova
dell’orchestra in cui ero stato da poco ingaggiato. Nell’organico stabile non
era compreso quello strumento per cui quando necessitava, veniva chiamato un esecutore
esterno. Il maestro era il primo trombone nell’orchestra del teatro, ma alle
volte trovava il tempo per queste collaborazioni.
Quando
ci presentammo, vista la mia giovane età, mi chiese con chi avevo studiato e
così venni a sapere che il mio maestro era stato suo compagno di conservatorio.
Quel fatto, seppur casuale, contribuì sin da subito a stabilire tra noi una
forma di complicità. Da sempre l’appartenenza alla stessa scuola musicale
rappresentava una vincolo di sicura importanza.
Quando
ne parlai con il mio maestro, aprì una finestra sui suoi anni giovanili:
«Lui
era più grande e stava completando gli studi» mi raccontò «io ero un ragazzino,
ma siccome il nostro maestro imponeva
agli ultimi arrivati di assistere alle lezioni di tutti i compagni, ho bene in
mente quei momenti. Nel corso di quelle lezioni il nostro maestro aveva
rimproveri per tutti, ma ricordo che con lui era particolarmente severo. Mi
sembra di sentire ancora le sue parole “Non uscirai da questa stanza finché non
suonerai come dico io…”.»
Quegli
insegnamenti così severi erano comunque serviti se gli avevano consentito di
arrivare a ricoprire un ruolo così importante nell’orchestra del teatro e anche
ad insegnare in conservatorio.
Da
quella volta ci furono diverse altre occasioni in cui mi capitò di sedermi al
suo fianco in orchestra e in una di queste mi invitò a suonare nel gruppo di
ottoni da lui diretto. Accettai con entusiasmo e orgoglio perché di quel gruppo
facevano parte anche alcuni suoi colleghi d’orchestra.
Ci
perdemmo poi di vista per qualche anno sino a quando ci incontrammo nuovamente
in conservatorio e questa volta da colleghi, vista la mia fresca nomina. Subito
ne approfittò per propormi di collaborare con lui in teatro dove era stato
nominato responsabile della banda di palcoscenico: «Ho bisogno di gente fidata»
mi disse «e poi a breve abbiamo in programma la Turandot».
Accettai
con entusiasmo, ma ben presto mi resi conto che quel riferimento a “gente
fidata” aveva buone ragioni di esistere. Infatti l’ambiente in teatro non era
come lo avevo immaginato. Sapevo bene che in ogni orchestra i rapporti tra i
musicisti possono essere talvolta tesi e controversi, tuttavia mi ero illuso
che in un grande teatro si respirasse un’aria più salubre. Mi sbagliavo.
Fui
presto avvicinato da vari colleghi che sondavano le mie opinioni e soprattutto
cercavano di screditare ai mie occhi la sua figura. Non potevo certo conoscere
le ragioni di tali avversità e comunque non avevo alcuna intenzione di
partecipare a quelle dispute. Tuttavia il fatto stesso che la mia presenza in
teatro fosse dovuta al suo invito mi metteva in una posizione scomoda per non
dire equivoca.
Nonostante
cercassi di evitare qualsiasi coinvolgimento mi ritrovavo spesso in situazioni imbarazzanti,
per non dire paradossali. Così poteva accadere che il maestro di trombone mi
desse furtivamente un appuntamento in qualche luogo remoto del teatro per darmi
informazioni apparentemente irrilevanti. Poi, quasi si scusava dicendomi: «Sai,
qui anche i muri hanno orecchi.»
Le
stranezza erano comunque all’ordine del giorno: colleghi che non si rivolgevano
la parola, sguardi furtivi, toccate di gomito e il tutto coronato da grandi ipocriti
sorrisi.
Una
volta mi disse: «Per sopravvivere in questo ambiente devi scegliere: o vittima
o carnefice, In mezzo non c’è posto.»
Eppure
il mio rapporto con lui fu sempre sincero e leale. Ci capivamo con poche parole
e trovavamo anche il modo per sorridere talvolta di quello che ci accadeva
intorno. Certo alle volte il suo carattere ombroso ed introverso aveva la
meglio e lo rendeva incompatibile con molte persone. Sicuramente anche la
nomina quale responsabile della banda di palcoscenico lo aveva posto in una
posizione delicata e non da tutti condivisa.
Ne
ebbi la conferma quando qualche mese dopo il mio ingresso in teatro fu indetta
in tutta fretta un’audizione per la banda di palcoscenico, proprio nel ben
mezzo della stagione. A quel punto compresi di essere anch’io una causa di
tanto dissenso e pensai di farmi da parte. Un lavoro lo avevo e potevo trovare
occasione per suonare anche altrove. Fu il maestro a sorprendermi quando mi comunicò
personalmente la data dell’audizione.
«Mi
aspetteranno al varco» dissi «è un rischio per entrambi.» Lui aspirò la sua
immancabile sigaretta e quasi sorridendo mi rispose: «Ti presenti. Suoni bene.
E chiudi la bocca a tutti».
Sembrava
più facile a dirsi che a farsi. Ma fui contagiato dal suo ottimismo. Ci pensai qualche
giorno e infine mi presentai all’audizione.
C’era
una lunga fila di candidati, ma quando chiamarono per l’appello nessuno si fece
avanti, cosi anche per liberarmi dall’ansia, mi proposi e fui il primo a
suonare di fronte alla commissione. Quando entrai nella sala riconobbi volti
noti, tra cui anche quello del maestro, tutto solo in un angolo. Suonai senza
pensarci troppo e terminata l’audizione me ne tornai presto a casa, senza
attendere l’esito. Qualche giorno dopo incontrai il maestro in conservatorio e
questa volta il suo sorriso era più intenso: «Hai visto» mi disse «come ti
avevo detto…».
Era
un uomo di poche parole e forse per questo motivo molti non lo capivano.
Lo
capivano invece e bene i suoi studenti. In conservatorio mi capitava di
incontrarne qualcuno che invitavo a parlare del maestro per carpirne qualche
segreto.
Sapevo
che molti suoi studenti avevano raggiunto risultati ragguardevoli e alcuni di
loro ricoprivano ruoli in orchestre prestigiose. Ero incuriosito dal suo modo
di insegnare per comprendere come le sue difficoltà e divergenze con il mondo
esterno si ribaltassero magicamente all’interno della sua classe.
Ma
non ottenni risposte rivelatrici. Forse solo col tempo uno studente riesce a prendere
coscienza dei valori profondi di un insegnante. I ragazzi lo temevano per i
modi bruschi, lo ammiravano per i risultati che li aiutava a raggiungere, ma
non andavano oltre.
Mi
divertirono però alcuni racconti riguardo la sua proverbiale distrazione come
quando non si accorgeva della presenza in classe di un allievo e usciva
dall’aula alla sua ricerca per poi rimproverarlo quando al suo ritorno lo
trovava tranquillamente seduto con gli altri allievi. E naturalmente nessuno
osava contraddirlo.
Oppure
quando in teatro si era riparato in un atrio per fumare indisturbato senza
accorgersi del sensore posizionato sopra di lui con il risultato di venire
ricoperto a sorpresa da una soffice schiuma bianca fuoriuscita dall’estintore. Per
non dire delle volte che gli capitava di recarsi al lavoro in macchina per poi
ritornare a casa in tram.
Personalmente
sono stato vittima della sua distrazione quella volta in cui mi invitò al bar
per una birra. Al momento di pagare si accorse di aver dimenticato il
portafoglio nel cappotto, allora misi io stesso una banconota sul bancone.
Continuammo nel frattempo a chiacchierare e quando finalmente il barista tornò
con il resto il maestro lo intascò con tutta naturalezza ed io non ebbi il
coraggio di obiettare, aggiungendo a bassa
voce: «La prossima volta offro io…».
Non
aveva grandi rapporti con gli altri colleghi. Anzi quando giungeva in
conservatorio per la lezione, in attesa degli allievi, il suo passatempo
preferito era quello di sbriciolare un pezzo di pane per gli uccellini che cinguettavano
nei pressi del grande albero del chiostro.
Una
volta mi raccontò di quando un celebre compositore italiano gli dedicò un
concerto e lui lo eseguì in prima assoluta proprio nella sala del
conservatorio.
«Era
una persona molto sola» mi disse riferendosi al compositore, «era direttore dei
corsi estivi di perfezionamento a cui partecipavo come docente. Ci incontravamo
alle volte verso sera a passeggiare in un parco. Parlavamo poco, ma una volta
mi disse: “Scriverò un concerto per te”. Pochi mesi dopo mi spedì lo spartito.»
Forse
proprio la solitudine li aveva fatti incontrare. Entrambi incapaci di
comunicare se non per mezzo della musica.
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