Ricordo
le parole di un collega, suonatore di bassotuba, alla domanda sul perché avesse
scelto di studiare proprio quello strumento:
«Non
sono stato io a decidere: è lui che ha scelto me.»
Non
credo occorra molta fantasia per comprendere che stiamo parlando di uno
strumento assai particolare. Non fosse altro perché appartiene a quella schiera
di strumenti (come per esempio la fisarmonica o il mandolino) che hanno
compiuto un lungo e fastidioso cammino prima di essere ammessi nell’organico dei
conservatori e quindi inseriti ufficialmente in ambito culturale.
In
verità il bassotuba ha fatto il suo ingresso in conservatorio soltanto attorno
al nuovo secolo (e ancora oggi si contano appena una ventina di classi in tutto
il paese). In ogni caso, sino a quel tempo, il percorso scolastico di un aspirante
tubista era limitato in sostanza al campo bandistico. E naturalmente per partecipare
a concorsi nelle orchestre non era richiesto alcun titolo di studio: l’unico
requisito era di saper suonare bene lo strumento. Capitava così che un tubista
di una qualche semplice banda di paese potesse essere catapultato nella
diversissima realtà dell’orchestra di un importante teatro di tradizione. E’
facile capire come a quel punto, il diverso livello sociale e culturale poteva essere
causa di incomprensioni in entrambi i sensi.
Ho
conosciuto molti colleghi di bassotuba e devo riconoscere che alcuni di loro
erano soggetti assolutamente originali. Sicuramente la situazione odierna si è
assai normalizzata, tuttavia non stiamo parlando di molto tempo fa.
Ricordo
ad esempio un collega che, tra le altre cose, sin dall’alito mattutino
confermava una certa attitudine alle bevande alcoliche. Nel corso di un
ricevimento cui partecipavano anche gli orchestrali fu offerto un assaggio di una
grappa speciale. Qualcuno accettò, con moderazione. Poi arrivò lui: prese la
bottiglia tra le mani, controllò il contenuto, quindi la portò improvvisamente
alla bocca e ne tracannò una notevole quantità. Non so se possa essere stata una
concausa, ma quello stesso giorno, durante la prova, ebbe poi un litigio con il
direttore d’orchestra. Questi, alquanto alterato, lo rimproverò dicendo: «Qui
qualcuno è di troppo: se ne vada oppure me ne andrò io stesso» a cui il tubista
replicò candidamente: «ah, io qui sto benissimo, non mi muovo di certo». Il
direttore posò la bacchetta sul leggio e se ne andò.
Tuttavia,
trattandosi di personaggi alle volte un po’ sprovveduti, poteva più facilmente
capitare che fossero loro stessi a subire qualche scherzo o angheria. Ricordo
un tubista che, suonando saltuariamente, arrotondava il mensile facendo lavori manuali
quale carpentiere. Si alzava al mattino presto e dunque, quando si presentava
per in teatro per la recita serale, poteva capitare che durante le lunghe pause
alle quali era soggetto lo spartito del suo strumento, ne approfittasse per schiacciare
un pisolino. Lo strumento era davanti a lui, fermo sul sostegno, ma appunto
causa l’abbiocco, egli non si accorgeva quando il collega di trombone a lui
vicino, con molta delicatezza, gli smontava delicatamente lo strumento. Prima
un pistone, poi una ritorta, per cui quando arrivava il momento dell’attacco,
svegliandosi improvvisamente, imbracciava lo strumento emettendo una serie di
suoni impropri, sempre che non gli fosse stato asportato anche il bocchino
perché allora ogni tentativo era vano.
Una
volta, durante l’intervallo, gli versarono nella campana dello strumento un
intero secchio d’acqua. Quando, sempre prima dell’attacco, tentò di imbracciare
lo strumento, lo stesso, a causa del peso, gli scivolò in avanti rovesciando una
cascata d’acqua sulla schiena dei cornisti seduti di fronte a lui!
C’era
poi anche gente simpatica. Come quel tubista con cui condivisi l’esecuzione del
Concerto di John Cage, per pianoforte preparato e fiati.
Devo
spiegare che Cage è stato un compositore d’avanguardia americano, divenuto celebre
per le sue composizioni spesso provocatorie. L’opera in questione consisteva in
un brano in cui il pianoforte viene “preparato”, modificandone il suono,
inserendo vari oggetti tra le sue corde. Sicuramente si trattava di un’opera di
non facile lettura e neppure di facile ascolto.
Gli
strumenti a fiato, circa una decina, erano posti a semicerchio attorno al
pianoforte. Casualmente mi trovai a fianco del bassotuba. Ricordo che era un
signore simpatico, con un forte accento toscano. Probabilmente non era abituato
a quel genere di musica e durante le prove spesso si lamentava dicendomi: «E un
ci capisco nulla… Te l’ha’ mai trovato qualcosa di simile ni metodo Bona? E
poi… in qui punto e deo solo soffiare: ma se l’è tutta la vita che cerco di fa’
de soni decenti con questo arnese.. e ora mi si dice che deo soffiare senza
sonare…»
Al
momento del concerto lo vidi piuttosto agitato: «E l’è un attimo perdere i’
conto delle battute... un ci son riferimenti…». Infine, poco prima
dell’ingresso del direttore e del pianista mi disse: «Oh aiutamoci! Ogni tanto
damoci i’ numero della battuta…»
Fu
così che il direttore diede inizio all’esecuzione e solo pochi secondi dopo mi
sentii toccare il piede e vidi il suo volto preoccupato: «Oh… in do siamo? E mi
so’ perso….!»
Mi
scappò un sorriso che causò una distrazione per cui anch’io rimasi incerto
sulla risposta. Nel frattempo altri colleghi incominciavano ad alzare lo
sguardo per chiedere il numero della battuta. Incominciarono a circolare, nel
mezzo dell’esecuzione, tenui voci che indicavano ora un numero, ora un altro:
«Battuta 38… no 39…» finché tra le tante si levò una voce che disse:
«Tombola!». A quel punto emerse anche una risata malcelata e si sa, in certe
circostanze, il riso è contagioso…le risate aumentarono e qualche musicista, in
preda alle convulsioni, smise del tutto di suonare.
Non
ricordo in che modo si concluse il concerto, ma immagino e spero che il
pubblico abbia interpretato quegli strani atteggiamenti degli orchestrali come
previsti da quella singolare partitura. Rammento solo il commento finale dell’amico
tubista: «Maremma maiala! Mai più è….un ‘oncerto ‘osì!»
Ma
non tutti i tubisti erano così sprovveduti. Ne conobbi uno che possedeva anche
una certa cultura: aveva studiato per qualche anno il pianoforte, ma i suoi
tentativi di entrare in conservatorio erano sempre falliti. Stanco e deluso,
ebbe un’intuizione: si recò in segreteria per chiedere quale fosse lo strumento
con meno richieste di ammissione.
Per
una fatale combinazione, proprio in quel periodo il direttore del conservatorio
aveva escogitato un espediente per ammettere anche studenti di bassotuba: si
presentava domanda alla classe di trombone per poi eseguire lo stesso programma
con il bassotuba (in fondo si trattava solo di suonare un’ottava sotto…). Come
avrete capito la risposta della segreteria fu ovvia e il mio amico si ritrovò
finalmente iscritto in conservatorio nella classe di trombone, ma un’ottava
sotto… con il bassotuba. Ebbi poi molte occasioni di suonare con lui e nel
tempo la sua personalità estrosa si evidenziò in svariate occasioni.
Possiamo
incominciare da quando, ancora studente, partecipò ad un concerto in un antico
monastero. Dopo l’esibizione ci fu un banchetto offerto dalle suore del
convento. Nel bel mezzo della festa la madre superiora fece un discorso di
ringraziamento al termine del quale, con sommo entusiasmo, invitò i ragazzi a
suonare in esclusiva un omaggio per tutta la congregazione. Nessuno si mosse,
forse per timidezza o per stanchezza. Sembrava che l’invito fosse stato
dimenticato quando nel mezzo della sala si materializzò la figura di un
bassotuba. L’allegro vociare si arrestò e all’improvviso, quanto mai
inaspettati, presero vita alcuni gravi suoni che furono ben presto identificati
come assolutamente identici a quelli del temerario inno “Bandiera rossa”. Come
mi raccontò l’amico, con sua grande sorpresa, il termine della sua esibizione
coincise con la fine della festa.
Poi
ci fu quella volta del grande rifiuto. Il mio amico aveva partecipato
all’audizione per bassotuba in un importante teatro, ma il prescelto era stato
un musicista inglese e a lui era stato offerto un semplice contratto di
collaborazione nella banda di palcoscenico. Avvenne però che alla prova generale
il tubista inglese, vittima di una colica intestinale, risultò assente. Così’,
all’ultimo momento, fu chiamato il tuba di palcoscenico per sostituirlo. Lui si
presentò sul proscenio, al cospetto di tutta l’orchestra e il direttore (un
grande maestro, ve lo assicuro) lo invitò a scendere nel golfo mistico. Poteva
forse essere la sua grande occasione, ma tra lo stupore generale disse
pressappoco le seguenti parole:
«Visto
che preferite gli stranieri, provate allora a chiamare un altro inglese…». Inutile
aggiungere che la sua carriera in quel teatro si concluse in quello stesso
istante.
Un
altro scherzetto lo combinò durante un concerto, suonando con il quintetto di
ottoni di cui anch’io facevo parte.
Nel
corso dell’esibizione, durante la presentazione del brano successivo mi parve alquanto
distratto, come avvolto nei suoi pensieri e infatti quando la musica iniziò non
ci volle molto a capire che lui stava suonando un altro brano. A quel punto
smise di suonare e sporgendosi verso il leggio del vicino cercò di capire cosa
gli altri stessero suonando. Controllò alcuni fogli sparsi sul suo leggio
scuotendo la testa. Inutile dire che nel frattempo, noi quattro esecutori,
continuavamo a suonare con impegno pur senza il sostegno del basso. Fu in quel
momento che lui decise di posare a terra il suo strumento, si piegò verso un
lato e ritornò in posizione eretta tenendo tra le mani un voluminoso plico di spartiti
che incominciò a sfogliare.
Scosse
più volte la testa e infine depose nuovamente il plico al suo fianco. La
musica, pur zoppicando, si stava approssimando al finale. Lui, ormai rassegnato,
a quel punto si mise in posizione composta, con le braccia conserte, come un
semplice spettatore. Nelle ultime battute incrociai il suo sguardo e fu a quel
punto che mi sorrise e, quasi compiaciuto, mi mostrò il pollice alzato.
Non
so come, arrivammo alla fine del brano. Ed ecco che il nostro amico si
risvegliò dal torpore unendo il suo applauso a quello di un pubblico
sorprendentemente divertito e convinto, forse, che la scenetta comica di un
tubista senza spartito fosse stata parte dello spettacolo.
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