mercoledì 9 ottobre 2019

Bassotuba

Ricordo le parole di un collega, suonatore di bassotuba, alla domanda sul perché avesse scelto di studiare proprio quello strumento:
«Non sono stato io a decidere: è lui che ha scelto me.»
Non credo occorra molta fantasia per comprendere che stiamo parlando di uno strumento assai particolare. Non fosse altro perché appartiene a quella schiera di strumenti (come per esempio la fisarmonica o il mandolino) che hanno compiuto un lungo e fastidioso cammino prima di essere ammessi nell’organico dei conservatori e quindi inseriti ufficialmente in ambito culturale.
In verità il bassotuba ha fatto il suo ingresso in conservatorio soltanto attorno al nuovo secolo (e ancora oggi si contano appena una ventina di classi in tutto il paese). In ogni caso, sino a quel tempo, il percorso scolastico di un aspirante tubista era limitato in sostanza al campo bandistico. E naturalmente per partecipare a concorsi nelle orchestre non era richiesto alcun titolo di studio: l’unico requisito era di saper suonare bene lo strumento. Capitava così che un tubista di una qualche semplice banda di paese potesse essere catapultato nella diversissima realtà dell’orchestra di un importante teatro di tradizione. E’ facile capire come a quel punto, il diverso livello sociale e culturale poteva essere causa di incomprensioni in entrambi i sensi.

Ho conosciuto molti colleghi di bassotuba e devo riconoscere che alcuni di loro erano soggetti assolutamente originali. Sicuramente la situazione odierna si è assai normalizzata, tuttavia non stiamo parlando di molto tempo fa.
Ricordo ad esempio un collega che, tra le altre cose, sin dall’alito mattutino confermava una certa attitudine alle bevande alcoliche. Nel corso di un ricevimento cui partecipavano anche gli orchestrali fu offerto un assaggio di una grappa speciale. Qualcuno accettò, con moderazione. Poi arrivò lui: prese la bottiglia tra le mani, controllò il contenuto, quindi la portò improvvisamente alla bocca e ne tracannò una notevole quantità. Non so se possa essere stata una concausa, ma quello stesso giorno, durante la prova, ebbe poi un litigio con il direttore d’orchestra. Questi, alquanto alterato, lo rimproverò dicendo: «Qui qualcuno è di troppo: se ne vada oppure me ne andrò io stesso» a cui il tubista replicò candidamente: «ah, io qui sto benissimo, non mi muovo di certo». Il direttore posò la bacchetta sul leggio e se ne andò.
Tuttavia, trattandosi di personaggi alle volte un po’ sprovveduti, poteva più facilmente capitare che fossero loro stessi a subire qualche scherzo o angheria. Ricordo un tubista che, suonando saltuariamente, arrotondava il mensile facendo lavori manuali quale carpentiere. Si alzava al mattino presto e dunque, quando si presentava per in teatro per la recita serale, poteva capitare che durante le lunghe pause alle quali era soggetto lo spartito del suo strumento, ne approfittasse per schiacciare un pisolino. Lo strumento era davanti a lui, fermo sul sostegno, ma appunto causa l’abbiocco, egli non si accorgeva quando il collega di trombone a lui vicino, con molta delicatezza, gli smontava delicatamente lo strumento. Prima un pistone, poi una ritorta, per cui quando arrivava il momento dell’attacco, svegliandosi improvvisamente, imbracciava lo strumento emettendo una serie di suoni impropri, sempre che non gli fosse stato asportato anche il bocchino perché allora ogni tentativo era vano.
Una volta, durante l’intervallo, gli versarono nella campana dello strumento un intero secchio d’acqua. Quando, sempre prima dell’attacco, tentò di imbracciare lo strumento, lo stesso, a causa del peso, gli scivolò in avanti rovesciando una cascata d’acqua sulla schiena dei cornisti seduti di fronte a lui! 
C’era poi anche gente simpatica. Come quel tubista con cui condivisi l’esecuzione del Concerto di John Cage, per pianoforte preparato e fiati.
Devo spiegare che Cage è stato un compositore d’avanguardia americano, divenuto celebre per le sue composizioni spesso provocatorie. L’opera in questione consisteva in un brano in cui il pianoforte viene “preparato”, modificandone il suono, inserendo vari oggetti tra le sue corde. Sicuramente si trattava di un’opera di non facile lettura e neppure di facile ascolto.
Gli strumenti a fiato, circa una decina, erano posti a semicerchio attorno al pianoforte. Casualmente mi trovai a fianco del bassotuba. Ricordo che era un signore simpatico, con un forte accento toscano. Probabilmente non era abituato a quel genere di musica e durante le prove spesso si lamentava dicendomi: «E un ci capisco nulla… Te l’ha’ mai trovato qualcosa di simile ni metodo Bona? E poi… in qui punto e deo solo soffiare: ma se l’è tutta la vita che cerco di fa’ de soni decenti con questo arnese.. e ora mi si dice che deo soffiare senza sonare…»
Al momento del concerto lo vidi piuttosto agitato: «E l’è un attimo perdere i’ conto delle battute... un ci son riferimenti…». Infine, poco prima dell’ingresso del direttore e del pianista mi disse: «Oh aiutamoci! Ogni tanto damoci i’ numero della battuta…»
Fu così che il direttore diede inizio all’esecuzione e solo pochi secondi dopo mi sentii toccare il piede e vidi il suo volto preoccupato: «Oh… in do siamo? E mi so’ perso….!»
Mi scappò un sorriso che causò una distrazione per cui anch’io rimasi incerto sulla risposta. Nel frattempo altri colleghi incominciavano ad alzare lo sguardo per chiedere il numero della battuta. Incominciarono a circolare, nel mezzo dell’esecuzione, tenui voci che indicavano ora un numero, ora un altro: «Battuta 38… no 39…» finché tra le tante si levò una voce che disse: «Tombola!». A quel punto emerse anche una risata malcelata e si sa, in certe circostanze, il riso è contagioso…le risate aumentarono e qualche musicista, in preda alle convulsioni, smise del tutto di suonare.
Non ricordo in che modo si concluse il concerto, ma immagino e spero che il pubblico abbia interpretato quegli strani atteggiamenti degli orchestrali come previsti da quella singolare partitura. Rammento solo il commento finale dell’amico tubista: «Maremma maiala! Mai più è….un ‘oncerto ‘osì!»
Ma non tutti i tubisti erano così sprovveduti. Ne conobbi uno che possedeva anche una certa cultura: aveva studiato per qualche anno il pianoforte, ma i suoi tentativi di entrare in conservatorio erano sempre falliti. Stanco e deluso, ebbe un’intuizione: si recò in segreteria per chiedere quale fosse lo strumento con meno richieste di ammissione.
Per una fatale combinazione, proprio in quel periodo il direttore del conservatorio aveva escogitato un espediente per ammettere anche studenti di bassotuba: si presentava domanda alla classe di trombone per poi eseguire lo stesso programma con il bassotuba (in fondo si trattava solo di suonare un’ottava sotto…). Come avrete capito la risposta della segreteria fu ovvia e il mio amico si ritrovò finalmente iscritto in conservatorio nella classe di trombone, ma un’ottava sotto… con il bassotuba. Ebbi poi molte occasioni di suonare con lui e nel tempo la sua personalità estrosa si evidenziò in svariate occasioni.
Possiamo incominciare da quando, ancora studente, partecipò ad un concerto in un antico monastero. Dopo l’esibizione ci fu un banchetto offerto dalle suore del convento. Nel bel mezzo della festa la madre superiora fece un discorso di ringraziamento al termine del quale, con sommo entusiasmo, invitò i ragazzi a suonare in esclusiva un omaggio per tutta la congregazione. Nessuno si mosse, forse per timidezza o per stanchezza. Sembrava che l’invito fosse stato dimenticato quando nel mezzo della sala si materializzò la figura di un bassotuba. L’allegro vociare si arrestò e all’improvviso, quanto mai inaspettati, presero vita alcuni gravi suoni che furono ben presto identificati come assolutamente identici a quelli del temerario inno “Bandiera rossa”. Come mi raccontò l’amico, con sua grande sorpresa, il termine della sua esibizione coincise con la fine della festa.
Poi ci fu quella volta del grande rifiuto. Il mio amico aveva partecipato all’audizione per bassotuba in un importante teatro, ma il prescelto era stato un musicista inglese e a lui era stato offerto un semplice contratto di collaborazione nella banda di palcoscenico. Avvenne però che alla prova generale il tubista inglese, vittima di una colica intestinale, risultò assente. Così’, all’ultimo momento, fu chiamato il tuba di palcoscenico per sostituirlo. Lui si presentò sul proscenio, al cospetto di tutta l’orchestra e il direttore (un grande maestro, ve lo assicuro) lo invitò a scendere nel golfo mistico. Poteva forse essere la sua grande occasione, ma tra lo stupore generale disse pressappoco le seguenti parole:
«Visto che preferite gli stranieri, provate allora a chiamare un altro inglese…». Inutile aggiungere che la sua carriera in quel teatro si concluse in quello stesso istante.
Un altro scherzetto lo combinò durante un concerto, suonando con il quintetto di ottoni di cui anch’io facevo parte.
Nel corso dell’esibizione, durante la presentazione del brano successivo mi parve alquanto distratto, come avvolto nei suoi pensieri e infatti quando la musica iniziò non ci volle molto a capire che lui stava suonando un altro brano. A quel punto smise di suonare e sporgendosi verso il leggio del vicino cercò di capire cosa gli altri stessero suonando. Controllò alcuni fogli sparsi sul suo leggio scuotendo la testa. Inutile dire che nel frattempo, noi quattro esecutori, continuavamo a suonare con impegno pur senza il sostegno del basso. Fu in quel momento che lui decise di posare a terra il suo strumento, si piegò verso un lato e ritornò in posizione eretta tenendo tra le mani un voluminoso plico di spartiti che incominciò a sfogliare.
Scosse più volte la testa e infine depose nuovamente il plico al suo fianco. La musica, pur zoppicando, si stava approssimando al finale. Lui, ormai rassegnato, a quel punto si mise in posizione composta, con le braccia conserte, come un semplice spettatore. Nelle ultime battute incrociai il suo sguardo e fu a quel punto che mi sorrise e, quasi compiaciuto, mi mostrò il pollice alzato.
Non so come, arrivammo alla fine del brano. Ed ecco che il nostro amico si risvegliò dal torpore unendo il suo applauso a quello di un pubblico sorprendentemente divertito e convinto, forse, che la scenetta comica di un tubista senza spartito fosse stata parte dello spettacolo.

n.b. Un ringraziamento all’amico Sandro per la traduzione di alcune battute in toscano verace. 

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