giovedì 14 novembre 2019

Il violino


Mio padre suonava il violino.
Lo aveva studiato da giovane, assieme al pianoforte, prendendo lezioni da un vecchio maestro, un tempo artista del Teatro Regio. Per raggiungerlo doveva percorrere con la bicicletta circa quaranta chilometri tra andata e ritorno.
Poi iniziò la gavetta suonando in varie compagnie d’operetta, ma quella vita disordinata gli procurò problemi di salute e finì con l’ammalarsi gravemente. Allora suo padre, non comprendendo il senso della sua passione, lo obbligò a scegliersi un lavoro “serio” e così divenne barbiere. Mio padre, però, quando riuscì ad avere una bottega tutta sua, trasferì quella passione mai sopita nel retro del negozio, dove continuò a studiare musica e a divertirsi suonando con gli amici.
Sin da piccino fui sempre attratto da quella seconda stanza, dove facevano bella mostra, assieme al violino, anche un pianoforte, una fisarmonica e una chitarra.

Ricordo però che il violino lo suonava raramente. Il problema principale, che forse lo indisponeva, era di doverlo accordare ogni volta. Non doveva trattarsi di uno strumento di gran pregio perché quella faccenda lo teneva impegnato per un lungo tempo e lo rendeva nervoso. Poi, quando finalmente iniziava a suonare, il pezzo preferito era la “Czarda” di Monti, un brano assai impegnativo che il fatto di non riuscire a suonarlo correttamente, contribuiva ad aumentare il suo nervosismo sino a quando si arrendeva all’evidenza riponendo lo strumento nell’astuccio.
Sarà stata forse la percezione di quel difficile rapporto, tra amore e odio, che il violino non attirò mai le mie attenzioni.
Diventato adulto e lavorando in orchestra, sono venuto poi a conoscenza di tanti colleghi violinisti, anche se era fatale che le amicizie più strette si sviluppassero tra colleghi di sezione.
Dunque nel merito non ho molti ricordi, anche se, a ben pensarci, mi torna alla mente un collega che conobbi proprio all’inizio della carriera orchestrale.
Si chiamava Lavinio. Il suo ruolo era quello di “concertino dei primi”, ovvero sedeva accanto al “violino di spalla”, il primo violino dell’orchestra. Si trattava di un ruolo importante che lui sosteneva con bravura e modestia dovendo suonare a fianco del musicista più importante di tutta l’orchestra. Spesso gli capitava di avere accanto a sè dei veri virtuosi, ma giovani e inesperti, che allora aiutava con la sua esperienza a superare i piccoli imprevisti di un mestiere difficile. Infatti Lavinio possedeva una musicalità innata con la quale affrontava qualsiasi ostacolo con naturale semplicità.
Abitava in un piccolo paesino della cintura milanese dove, a tempo perso, dirigeva anche la Banda locale. Una volta mi invitò a suonare in un concerto da lui diretto.
Fu evidente che non aveva difficoltà ad affrontare qualsiasi tipo di musica e capii tante cose quando mi raccontò che la sua più grande passione era la musica jazz.
Mi parve un fatto curioso per un violinista, ma lui mi parlò di un suo idolo, Joe Venuti, celebre violinista jazz americano (ma di origini italiane), deceduto proprio in quegli anni. Mi raccontò che lui, il jazz lo aveva praticato soprattutto negli anni giovanili, quando suonava nelle orchestrine di varie località termali.
Che quella musica gli fosse rimasta nel sangue, lo testimoniava il fatto che al termine di ogni concerto, quando uscendo dalla sala i musicisti si recavano nei loro camerini, non mancava occasione di udire il suono del suo violino, tenuto magari “a braccio”, accennare in stile swing il tema della sinfonia appena eseguita.
Pochi anni dopo, riprendendo il lavoro in orchestra dopo la pausa estiva, venni a sapere del suo decesso, pare per un incidente stradale. Da allora, al termine di ogni concerto, scendendo le scale verso il camerino, mi tornava alla mente Lavinio e allora cercavo di immaginare, ma inutilmente, la versione swing di un tema classico appena eseguito.

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