domenica 4 novembre 2018

Nascita di una Banda



Felice è un suonatore ambulante che gira i paesi con la fisarmonica al collo. Siamo nel 1945. Ritrovata per caso una cassa di strumenti musicali, dispersa dal disperso esercito italiano, decide di formare una Banda. Affida l’incarico del reclutamento a Giuanin, un ragazzino di quindici anni che così ci racconta quel primo incontro….

(Da “La Banda Felice – racconti)

     Cercare i tipi adatti, aveva detto Felice. Incominciai a prepararmi un discorso. Dunque, Felice Suonabene, hai presente, vuole formare una banda. Bisogna dire una banda musicale per evitare equivoci. Gli strumenti li mette lui. E' vero non ha mai un soldo, ma quegli strumenti sono un lascito. Un lascito di qualcuno. Dice che pensa a tutto lui, basta essere disponibili. In fondo si tratta solo di un passatempo. Poteva andare.
     La ricerca fu meno difficile del previsto, perché restando sempre in orbita della crota, i tipi giusti non mancavano. E poi, in un periodo così disperato, qualsiasi cosa che aiutasse ad evadere dalla realtà era gradita.
     Quella sera si presentarono due mie coetanei, Ciano e Caio, Lino che aveva vent'anni e si era salvato dalla leva perché orfano di padre, poi tra gli adulti si presentarono Amos, afflitto da una leggera zoppia, Renato, detto Carnera per la mole e a sentire i medici che lo avevano riformato, ritardato mentale e infine Pino, non vedente. Un bella e varia compagnia. Senza femmine, naturalmente, ma la banda, almeno allora, era cosa da uomini.
     Felice conosceva quasi tutti, ma quella sera ci guardò come se non ci avesse mai visto prima, massaggiandosi la folta barba e grattandosi l'orecchio. Poi fu di poche parole:
     «Una banda, non è come suonare da soli. Una banda richiede disciplina. Ma prima di tutto bisogna imparare a suonare. Cosa non facile, ma nemmeno impossibile. Dipende tutto dall'orecchio».
     I nostri sguardi si posarono sulle orecchie altrui senza capire.
  Felice sapeva essere convincente in ogni occasione. Senza tanti preamboli incominciò la distribuzione dei pani e dei pesci:
     «A te la cornetta, a te il bombardino, per i clarini dovrete aspettare perché mancano le ance, vedrò di procurarle».
     A me toccò lo strumento più strano, quello tutto attorcigliato, con tre tasti.  Felice mi disse: «Si tratta di un corno, insomma: un-pa un-pa, poi capirai». In quanto a quel grosso arnese che Felice chiamava basso nessuno ebbe dei dubbi sul fatto che fosse affidato, diciamo per affinità, a Carnera. Per ultimo tocco a Pino, immobile come al solito nel punto in cui lo aveva lasciato Amos, la sua inseparabile guida: «Pino, a te la cassa, il mazzuolo nella destra e la sinistra sulla spalla di Amos che suonerà i piatti».
     «Ma io sono mancino» replicò Pino.
     «E allora invertitevi, che differenza fa».
     Ed eccoci lì, con in mano ognuno il suo catorcio di strumento e lo sguardo smarrito.
     «Su, non state lì impalati, prendete confidenza, provate a suonare» ci esortò Felice.
     Forse esistevano metodi didattici più raffinati, ma abituati com'eravamo al fai da te della vita, ci prestammo a quel gioco. Si impara tanto dall'esperienza, importante è farlo in fretta.

lunedì 3 settembre 2018

Il travestimento del Genis


La storia del genis ci regala un’appendice che non fa che confermare l’aura di mistero e tenerezza che circonda questo strumento.
Come abbiamo visto nel racconto precedente, il genis si trovò suo malgrado a contendere un’impossibile egemonia nei confronti del nobile corno francese.
Non si sa se l’artificio di cui ora parleremo sia stato opera della mente geniale di un artigiano o dell’intuito di qualche suonatore. Fatto sta che il genis mutò le proprie spoglie per travestirsi appunto nelle parvenze di un corno francese.
Come si attuò questo diabolico progetto?
Per spiegarlo dobbiamo addentrarci in questioni tecniche di non facile comprensione che cercheremo di chiarire con adeguata semplicità.
I non addetti ai lavori devono sapere che tra le varie caratteristiche della famiglia dei flicorni, la più utile da un punto di vista pratico è quella determinata dalla loro intercambiabilità. Ossia ogni esecutore può passare con una certa facilità da un modello all’altro mantenendo inalterata la chiave di lettura ed il rapporto tra i vari suoni armonici. Cambiano unicamente le dimensioni dell’imboccatura che con una certa pratica si può assecondare.
Il corno presenta invece caratteristiche tecniche più complesse a causa dello sviluppo dei suoi suoni armonici non assimilabile a quello dei flicorni. Inoltre la predisposizione dei tasti per la mano sinistra (anziché la destra come su tutti i flicorni) rende l’apprendimento ancora più difficoltoso. Furono infatti queste particolarità che contribuirono in un primo momento alla convenienza di sostituire, nell’organico bandistico, i corni con i genis. Tuttavia, considerando la tradizione e le  qualità timbriche del corno, non era difficile pronosticare  un pronto riscatto del più nobile strumento. Fu a questo punto che una mente geniale quanto diabolica partorì l’idea del travestimento.
Dunque si prese un tubo della lunghezza del genis (più corto di quelle di un corno) e lo si rese un po’ più sottile. Poi si disegnò uno strumento in tutto simile alla forma del corno, ma attenzione,  con l’impugnatura dei tasti affidata alla mano destra. Ora il  nostro strumentista, pur adattandosi all’imboccatura del corno, ritrovava sullo strumento gli stessi suoni armonici del genis!
Insomma, a vederlo dall’esterno (e per i più anche dall’interno) pareva proprio che il suonatore di genis ora si fosse trasformato in un suonatore di corno!
Il genis dato per defunto era dunque rinato sotto mentite spoglie!

giovedì 15 febbraio 2018

Ravel, all’ultimo secondo.



Vincenzo, come al solito, era in ritardo all’appuntamento.
In attesa, sul piazzale di Santa Maria della Passione, ero ormai tutto intirizzito dal freddo.
«Un traffico pazzesco» disse per scusarsi quando finalmente accostò l’auto.
«C’è già aria natalizia e siamo solo all’inizio di dicembre. Speriamo almeno di uscire in fretta dalla città.»
«A proposito. Dove andiamo?» chiese Vincenzo con la solita aria stralunata.
«Dove andiamo…» risposi «il concerto è a Saronno... o Seregno… questi posti sono tutti uguali.»
«Suoniamo per il premio Pozzoli: dov’è nato costui?»
«Cos’è un’interrogazione? Guarda, sono stanco morto» dissi io esausto «portami dove vuoi.»
Questo più o meno fu il dialogo intercorso tra due colleghi trombettisti che si dirigevano verso il luogo del concerto.
Si trattava del concerto di premiazione del Concorso pianistico intitolato ad Ettore Pozzoli. La sera prima avevano suonato a Milano e ora replicavano nella città natale del musicista. Appunto: Saronno o Seregno?

lunedì 5 febbraio 2018

Da Gabrieli a Schönberg, andata e ritorno.


Ci sono ricordi che il nostro inconscio nasconde in uno scrigno segreto, così segreto da non fornire la chiave per aprirlo e tanto meno le ragioni di una tale scelta. Così può capitare di tenere ben a mente immagini che avremmo volentieri dimenticato e di ometterne altre magari inoffensive. Ma in fondo non si può ricordare tutto, qualcosa bisogna eliminare.
Alle volte però succede che da un semplice pensiero si sprigioni, in tutt’altra direzione, una specie di epifania, per dirla “alla Proust”:  assaporando il gusto di un semplice biscotto si apre quello scrigno segreto e si materializza nella tua mente un ricordo che credevi dimenticato.
Questo è successo a me, in un pomeriggio uggioso.
Stavo cercando su google informazioni su un celebre musicista con cui avevo collaborato anni fa ed ecco aprirsi lo scrigno con un ricordo dimenticato. Si trattava di un fatto bizzarro accaduto durante un concerto a cui avevo partecipato in veste di esecutore e che lo aveva molto divertito. Accadeva così che nel corso dei nostri incontri, in presenza di nuovi ospiti, mi invitava a raccontarlo.
Ora, immaginando di essere suoi ospiti, lo racconterò anche a voi.